LETTERA ENCICLICA
SPIRITUS PARACLITUS
DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XV
AI PATRIARCHI, PRIMATI,
ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA
IN OCCASIONE DEL XV CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN GIROLAMO
Venerabili Fratelli,
salute e Apostolica Benedizione.
Lo Spirito Santo, che per iniziare il genere umano ai misteri divini gli aveva dato il tesoro delle sante Lettere, con grande provvidenza ha fatto nascere, nel corso dei secoli, numerosi esegeti, santissimi ed addottrinatissimi, i quali non solo non permettessero che tale tesoro rimanesse abbandonato e improduttivo [1], ma con i loro studi e la loro attività offrissero ai fedeli cristiani la ricchissima « consolazione delle Scritture ».
È noto a tutti, e da tutti riconosciuto, che fra questi luminari un posto di primo piano spetta a San Girolamo, che la Chiesa Cattolica riconosce e venera come il Massimo Dottore che le sia stato concesso dal cielo per l’interpretazione delle Sacre Scritture.
E poiché fra poco commemoreremo il quindicesimo centenario della sua morte, Noi non vogliamo, Venerabili Fratelli, lasciar passare una così favorevole occasione per intrattenervi sulla gloria che Girolamo ha acquisito e sui servizi che egli ha reso nella conoscenza delle Scritture. Infatti, stimolati dalla consapevolezza del Nostro ufficio apostolico, affinché venga incrementato il nobilissimo studio delle Scritture proponiamo questo grande uomo come esempio da imitare, e confermiamo con la Nostra apostolica autorità le utilissime direttive e prescrizioni date in materia dai Nostri Predecessori di felice memoria Leone XIII e Pio X, adattandole alle esigenze imposte alla Chiesa dai tempi odierni. Infatti, Girolamo, « grandissimo uomo cattolico e profondo conoscitore della legge sacra » [2], « maestro dei cattolici » [3] e « modello esemplare di costumi nel mondo » [4], ha esposto meravigliosamente e difeso efficacemente la dottrina cattolica intorno ai Libri Santi, fornendoci un insieme di insegnamenti di altissimo valore, di cui Noi Ci valiamo per esortare tutti i figli della Chiesa, e specialmente i membri del clero, al rispetto, alla lettura devota e all’assidua meditazione delle Scritture Divine.
Voi sapete, Venerabili Fratelli, che Girolamo, nato a Stridone, città « un tempo di confine tra la Dalmazia e la Pannonia » [5], allevato fin dalla più tenera infanzia al Cattolicesimo [6], dopo che col battesimo ebbe preso qui, in questa alma Roma, l’abito di Cristo [7], fino alla fine della sua lunghissima vita consacrò tutte le sue forze allo studio, alla esposizione e alla difesa dei Libri Sacri.
Istruitosi in lettere latine e greche, appena uscito dalla scuola dei retori, ancora adolescente, si sforzò di commentare il profeta Abdia; questo esercizio « della sua prima gioventù » [8], fece crescere a tal punto il suo amore per le Scritture, che, seguendo la parabola del Vangelo, egli decise di dover sacrificare al tesoro che aveva scoperto « tutti i vantaggi di questo mondo » [9].
Conseguentemente, per niente turbato dalle difficoltà di tale decisione, abbandonò la casa, i genitori, la sorella, i parenti; rinunziò all’abitudine di una lauta mensa e partì per i luoghi santi dell’Oriente, allo scopo di procurarsi con maggiore abbondanza le ricchezze di Cristo e la conoscenza del Salvatore con la lettura e lo studio dei Libri Santi [10].
Più volte egli stesso descrive come si sia dedicato a questa sfibrante impresa: «Una meravigliosa sete di sapere mi spingeva ad istruirmi e non fui affatto, come alcuni pensano, il maestro di me stesso. Ad Antiochia ascoltai spesso e attentamente le lezioni di Apollinare di Laodicea, ma benché fossi suo discepolo nelle Sacre Scritture, non ho mai adottato il suo dogmatismo in materia di senso » [11].
Ritiratosi successivamente nel deserto della Calcide, in Siria, allo scopo di penetrare più profondamente il senso della parola divina e per frenare nello stesso tempo, con accanito travaglio, gli ardori della giovinezza, Girolamo si affidò all’insegnamento di un ebreo convertito, dal quale ebbe anche modo di apprendere la lingua ebraica e caldea. «Quali pene tutto ciò mi sia costato, quali difficoltà abbia dovuto vincere, quali scoraggiamenti soffrire, quante volte abbia abbandonato questo studio, per poi riprenderlo più tardi, stimolato dalla mia passione per la scienza, io solo, che l’ho provato, potrei dirlo, e con me coloro che mi vivevano accanto. E benedico Iddio per i dolci frutti che mi ha procurato l’amaro studio delle lingue » [12].
Per sfuggire ai tanti eretici che venivano a turbarlo perfino nella solitudine del deserto, si recò a Costantinopoli. Vescovo di questa città era allora San Gregorio il Teologo, celebre per la grande dottrina. Girolamo lo prese per quasi tre anni a guida e a maestro nell’interpretazione delle Sacre Scritture. In quest’epoca egli tradusse in latino le Omelie di Origene sui Profeti e la Cronaca di Eusebio, e commentò la visione dei Serafini in Isaia.
Ritornato a Roma, per le difficoltà che la Cristianità attraversava, fu accolto affettuosamente dal Papa Damaso, e utilizzato nel governo della Chiesa [13]. Sebbene assorbito notevolmente da questi impegni, tuttavia mai trascurò sia di dedicarsi ai Libri Santi [14] e di trascrivere e di esaminare i codici [15], sia di risolvere le difficoltà che gli venivano sottoposte e di iniziare i discepoli d’ambo i sessi alla conoscenza delle Scritture [16].
Per la verità, il Pontefice gli aveva affidato l’importantissimo compito di rivedere la versione latina del Nuovo Testamento, ed egli rivelò in quest’impresa una tale penetrazione e una tale finezza di giudizio che l’opera di Girolamo è sempre più stimata ed ammirata. Ma poiché tutti i suoi pensieri, tutti i suoi desideri l’attiravano verso i luoghi della Palestina, alla morte di Damaso, Girolamo si ritirò a Betlemme, dove, fondato un monastero presso la culla di Gesù, si consacrò tutto a Dio, dedicando il tempo che la preghiera gli lasciava libero allo studio e all’insegnamento delle Scritture.
Infatti, come più volte egli stesso riferisce di sé, « il mio capo s’incanutiva e avevo ormai l’aspetto più di un maestro che di un discepolo; ciò nonostante mi recai ad Alessandria, alla scuola di Didimo. Io devo molto a lui; egli mi insegnò quello che ignoravo, e ciò che già sapevo mi rivelò sotto diversa forma. Sembrava che non avessi più nulla da imparare, e ora, a Gerusalemme e a Betlemme, a prezzo di quali fatiche e di quali sforzi ho seguito, anche di notte, le lezioni di Baranina! Egli temeva gli Ebrei e mi faceva l’effetto di un secondo Nicodemo » [17].
Girolamo non si accontentò dell’autorità e delle lezioni di questi e di altri maestri, ma per raggiungere altri risultati egli si valse di fonti di documentazione di ogni genere; dopo essersi procurato fin dagli inizi i migliori manoscritti e Commentari delle Scritture, studiò i libri delle Sinagoghe e le opere della Biblioteca di Cesarea, fondata da Origene e da Eusebio; il confronto di questi testi con quelli che già possedeva doveva metterlo in grado di fissare la forma autentica e il vero senso del testo biblico. Per meglio raggiungere il suo scopo, visitò la Palestina in tutta la sua estensione, fermamente convinto del vantaggio che ne avrebbe tratto, come scriveva a Domnione e a Rogaziano: « La Sacra Scrittura sarà molto più penetrabile per colui che ha visto con i proprî occhi la Giudea, ha ritrovato i resti delle antiche città, ed appreso i nomi rimasti identici o mutati delle varie località. Questo è il pensiero che ci guidava quando ci siamo imposta la fatica di percorrere, insieme ai più eruditi Ebrei, la regione il cui nome risuona in tutte le chiese di Cristo » [18].
Pertanto, ecco Girolamo nutrire incessantemente il suo spirito con questa manna celeste; commentare le Lettere di Paolo; correggere, secondo i testi greci, i codici Latini dell’Antico Testamento; tradurre di nuovo in latino dall’originale ebraico quasi tutti i Libri sacri; spiegare ogni giorno le Sacre Scritture ai fedeli insieme riuniti; rispondere alle lettere che da ogni parte gli giungevano per sottoporgli difficoltà esegetiche da risolvere; confutare energicamente i detrattori dell’unità e della dottrina cattolica. Tanto grande era l’energia che gl’infondeva l’amore per le Scritture, da non smettere dallo scrivere e dal dettare, finché la morte non ebbe irrigidito la sua mano e spento la sua voce. Così, non risparmiando né fatiche, né veglie, né spese, mai, fino all’estrema vecchiaia, cessò di meditare giorno e notte, presso il Presepio, sulla legge del Signore, rendendo maggiori servigi al nome cattolico, dal fondo della sua solitudine, con l’esempio della sua vita e con i suoi scritti, di quelli che avrebbe potuto rendere se fosse vissuto a Roma, centro del mondo.
Dopo avere rapidamente esaminato la vita e le opere dl Girolamo, consideriamo, Venerabili Fratelli, quale fu il suo insegnamento sulla dignità divina e l’assoluta veridicità delle Scritture. A questo proposito, si analizzino gli scritti del grande Dottore: non v’è pagina in cui non sia reso evidente come egli abbia fermamente e invariabilmente affermato, in armonia con l’intera Chiesa Cattolica, che i Libri Santi sono stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, che l’autore di essi va ritenuto Dio stesso e che come tali la Chiesa li ha ricevuti [19]. Egli afferma infatti che i Libri della Sacra Scrittura sono stati composti sotto l’ispirazione o il consiglio o anche la diretta dettatura dello Spirito Santo; senza dubbio, questo stesso Spirito li ha composti e divulgati. D’altra parte, Girolamo non dubita minimamente che ogni autore di questi Libri abbia, secondo la propria natura e la propria intelligenza, dato libero contributo all’ispirazione divina. Non solo dunque egli afferma senza riserve l’elemento comune a tutti gli scrittori di cose sacre — sarebbe a dire il fatto che la loro penna è guidata dallo Spirito divino, a tal punto che Dio stesso deve essere considerato causa determinante di ogni espressione della Scrittura — ma anche distingue accuratamente ciò che è particolarmente caratteristico in ogni scrittore. Sotto diversi punti di vista, secondo cioè l’ordinamento del materiale, secondo l’uso dei vocaboli, la qualità e la forma dello stile, egli dimostra come ciascuno abbia messo a profitto le proprie facoltà e le proprie capacità personali; giunge in tal modo a fissare e a delineare bene il carattere singolo, le impronte, per così dire, e la fisionomia di ogni autore, soprattutto riguardo ai profeti e all’apostolo Paolo. Per meglio porre in rilievo questa collaborazione di Dio e dell’uomo alla stessa opera, Girolamo presenta 1’esempio dell’operaio che si serve, nella costruzione di un oggetto qualsiasi, di uno strumento o di un utensile; infatti, tutto quello che gli scrittori sacri dicono « altro non è che la parola stessa di Dio e non la loro parola, e parlando per mezzo della loro bocca Dio volle servirsi come d’uno strumento » [20].
Inoltre, se noi cerchiamo di comprendere come bisogna interpretare questa influenza di Dio sullo scrittore di sacri argomenti, e l’azione che Egli come causa principale esercitò, noi vedremo che l’opinione di Girolamo è in perfetta armonia con la dottrina comune della Chiesa Cattolica in quanto, egli sostiene, con il dono della sua grazia Dio illumina la mente dello scrittore circa le verità che questi deve trasmettere agli uomini « per ordine divino »; suscita in lui la volontà e lo costringe a scrivere; gli conferisce un’assistenza speciale fino al compimento del libro. È principalmente su questo punto del concorso divino, che il nostro santissimo uomo fonda l’eccellenza e la dignità incomparabili delle Scritture, la cui scienza paragona al « tesoro prezioso » [21] e alla « splendida perla » [22] nei quali, assicura, si trovano « le ricchezze di Cristo » [23] e « l’argento che orna la casa di Dio » [24].
In verità, egli proclamava con le parole e con l’esempio la suprema autorità delle Scritture, al punto che, non appena si sollevava una controversia, egli ricorreva alla Bibbia come alla più autorevole fonte per dedurne testimonianze, argomenti molto saldi e assolutamente inconfutabili al fine di dimostrare apertamente gli errori degli avversari. Così Girolamo rispose con chiarezza e semplicità ad Elvidio che negava la perpetua verginità della Madre di Dio: « Se ammettiamo tutto ciò che dice la Scrittura, neghiamo logicamente ciò che essa non dice. Noi crediamo che Dio sia nato da una vergine, appunto perché lo leggiamo nella Scrittura; e neghiamo che Maria non sia rimasta vergine dopo il parto, perché la Scrittura non lo riporta assolutamente » [25].
Servendosi di queste stesse armi s’impegna a difendere energicamente contro Gioviniano la dottrina cattolica sullo stato di verginità di Maria, sulla perseveranza, l’astinenza e il merito delle buone opere: « Io farò ogni sforzo per opporre, a ciascuna delle sue asserzioni, i testi delle Scritture; eviterò così che egli vada ovunque lamentandosi che io l’ho vinto più con la mia eloquenza che con la forza della verità » [26]. E nella difesa dei proprî libri contro l’eretico, così scrive: « Sembrerebbe che l’abbiano supplicato di cedere dinanzi a me, mentre egli non si è lasciato prendere che a malincuore, dibattendosi nei lacci della verità » [27].
Sul complesso della Scrittura egli così si esprime nel suo saggio su Geremia, che a causa della morte non poté ultimare: «Non bisogna seguire l’errore dei genitori, né quello degli antenati, bensì l’autorità delle Scritture e la volontà di Dio maestro » [28]. Ecco come insegna a Fabiola il metodo e l’arte per combattere il nemico: «Una volta che sarai erudito nelle Sacre Scritture, armato delle loro leggi e delle loro testimonianze, che sono i vincoli della verità, tu andrai contro i tuoi nemici, li domerai, li incatenerai e li riporterai prigionieri; e di questi avversari e prigionieri di ieri, tu farai tanti figli di Dio » [29].
Inoltre Girolamo insegna che l’ispirazione divina dei Libri Santi e la loro sovrana autorità comportano, quale conseguenza necessaria, l’immunità e l’assenza di ogni errore e di ogni inganno; tale principio egli aveva appreso nelle più celebri scuole d’Oriente e d’Occidente, come tramandato dai Padri e accettato dall’opinione comune. In verità, dopo che egli ebbe intrapreso, per ordine del Papa Damaso, la revisione del Nuovo Testamento, alcuni « spiriti meschini » gli rimproverarono a bella posta di aver tentato « contro l’autorità degli antichi e l’opinione di tutto il mondo, di fare alcuni ritocchi ai Vangeli »; Girolamo si accontentò di rispondere che non era abbastanza semplice di spirito, né così estremamente ingenuo, per pensare che la più piccola parte delle parole del Signore avesse bisogno d’essere corretta, o per ritenere che non fosse divinamente ispirata [30]. Nel commento alla prima visione di Ezechiele intorno ai quattro Evangeli, osserva: «Non troverà strani tutto quel corpo e quei dorsi disseminati d’occhi, chi si è reso conto che dal più piccolo particolare del Vangelo si sprigiona una luce che illumina col suo raggio il mondo intero; ed anche la cosa che è apparentemente la più trascurabile brilla di tutto il maestoso splendore dello Spirito Santo » [31]. Questo privilegio che egli qui rivendica per il Vangelo, è da lui reclamato in ognuno dei suoi Commentari per tutte le altre « parole del Signore »; egli ne fa la legge e la base dell’interpretazione cattolica; questo è d’altra parte il criterio di cui Girolamo si vale per distinguere il vero profeta dal falso [32]. Infatti, « la Parola del Signore è verità e, per lui, dire significa realizzare » [33]. Pertanto « la Scrittura non può mentire » [34], e non è permesso accusarla di menzogna [35] e neppure ammettere nella sua parola anche un solo errore di nome [36]. Del resto, il Santo Dottore aggiunge che egli « non pone sullo stesso piano gli Apostoli e gli altri scrittori », cioè gli autori profani; « quelli dicono sempre la verità, mentre questi, come capita agli uomini, possono errare su alcuni punti » [37]; molte affermazioni della Scrittura che a prima vista possono sembrare incredibili, sono tuttavia vere [38]; in questa « parola di verità » non è possibile scoprire nessuna contraddizione, « nessuna discordanza, nessuna incompatibilità » [39]; conseguentemente, « se la Scrittura contenesse due dati che sembrassero escludersi, entrambi resterebbero veri, quantunque diversi » [40].
Aderendo con convinzione a questo principio, se gli capitava di incontrare nei Libri sacri qualche contraddizione, Girolamo concentrava tutte le sue cure e tutti i suoi pensieri per risolvere la difficoltà, e se giudicava la soluzione ancora poco soddisfacente, non appena si presentasse l’occasione, senza perder coraggio, riprendeva l’esame del problema, anche se talora non giungeva a risolverlo completamente. Tuttavia non accusò mai gli scrittori sacri della minima falsità: « Lascio fare ciò agli empi, come Celso, Porfirio, Giuliano » [41]. In ciò era perfettamente d’accordo con Agostino, il quale, come leggiamo in una sua lettera allo stesso Girolamo, aveva per i Libri sacri tale venerazione e tale rispetto, da credere molto fermamente che nessun errore fosse sfuggito alla penna di uno solo di tali autori; perciò, se incontrava nelle Lettere sante un punto che sembrava in contrasto con la verità, lungi dal credere ad una menzogna, ne attribuiva la responsabilità ad una alterazione del manoscritto, a un errore di traduzione, o a una totale incomprensione propria. E aggiungeva: « Io so, fratello, che tu non pensi diversamente: voglio dire che non m’immagino affatto che tu desideri vedere le tue opere lette nella stessa disposizione di spirito in cui vengono lette le opere dei Profeti e degli Apostoli; dubitare che esse siano prive di ogni errore sarebbe un delitto » [42].
Con questa dottrina di Girolamo viene egregiamente confermata e spiegata la dichiarazione del Nostro Predecessore Leone XIII di felice memoria, nella quale è precisata la credenza antica e costante della Chiesa sulla perfetta immunità che mette la Scrittura al riparo d’ogni errore: « È tanto assurdo che l’ispirazione divina incorra nel pericolo di errare, che non solo il minimo errore ne è essenzialmente escluso, ma anche che questa esclusione e questa impossibilità sono tanto necessarie, quanto è necessario che Dio, sovrana verità, non sia l’autore di alcun errore, anche il più lieve ».
Dopo aver richiamato le conclusioni dei Concìli di Firenze e di Trento, confermate nel Sinodo Vaticano, Leone XIII prosegue: «Non importa nulla affermare che lo Spirito Santo ha assunto degli uomini come strumenti per scrivere, come se qualche errore potesse sfuggire non già all’autore primario ma agli ispirati scrittori. Infatti, con il suo potere soprannaturale Egli tanto li stimolò e li sospinse a scrivere, tanto li assistette mentre scrivevano, in modo che essi concepissero rettamente, volessero scrivere fedelmente ed esprimessero con infallibile verità tutte quelle cose e solo quelle che Egli voleva; diversamente Egli non sarebbe l’autore di tutta la sacra Scrittura » [43].
Le parole del Nostro Predecessore non lasciano adito ad alcun motivo di dubbio o di tergiversazione, tuttavia, Venerabili Fratelli, è doloroso rilevare che non sono mancati, non solo fra gli estranei, ma anche tra i figli della Chiesa Cattolica e — strazio ancor più grande per il Nostro cuore — perfino tra il clero e i maestri delle Scienze sacre, spiriti che con fiducia orgogliosa nel proprio criterio di giudizio, apertamente rifiutarono o attaccarono subdolamente su questo punto il magistero della Chiesa. Certamente Noi approviamo l’intenzione di coloro che, desiderosi per sé e per gli altri, di liberare il Testo Sacro dalle sue difficoltà, ricercano, con l’appoggio di tutti i dati della scienza e della critica, nuovi modi e nuovi metodi per risolverle; ma essi falliranno miseramente nella loro impresa, se trascureranno le direttive del Nostro Predecessore e se oltrepasseranno i limiti precisi indicati dai Santi Padri.
Ora l’opinione di alcuni moderni non si preoccupa affatto di queste prescrizioni e di questi limiti; distinguendo nella Sacra Scrittura un duplice elemento, uno principale o religioso, e uno secondario o profano, essi accettano, sì, il fatto che l’ispirazione si riveli in tutte le proposizioni ed anche in tutte le parole della Bibbia, ma ne restringono e ne limitano gli effetti, a partire dall’immunità dell’errore e dall’assoluta veracità, limitata al solo elemento principale o religioso. Secondo loro, Dio non si preoccupa e non insegna personalmente nella Scrittura se non ciò che riguarda la religione: il resto ha rapporto con le scienze profane e non ha altra utilità, per la dottrina rivelata, che quella di servire da involucro esteriore alla verità divina. Dio permette soltanto che esso vi sia, e l’abbandona alle deboli facoltà dello scrittore. Perciò non vi è nulla di strano se la Bibbia presenta, nelle questioni fisiche, storiche e in altre di simile argomento, passaggi piuttosto frequenti che non è possibile conciliare con gli attuali progressi delle scienze.
Alcuni sostengono che queste opinioni erronee non sono affatto in contrasto con le prescrizioni del Nostro Predecessore, avendo egli dichiarato che in materia di fenomeni naturali, l’autore sacro ha parlato secondo le apparenze esteriori, suscettibili quindi d’inganno. Quanto questa affermazione sia temeraria e menzognera, lo provano manifestamente le stesse parole del Pontefice.
L’apparenza esteriore delle cose — ha dichiarato molto saggiamente Leone XIII, seguendo Agostino e Tommaso d’Aquino — deve essere tenuta in una certa considerazione; ma questo principio non può suscitare il minimo sospetto di errore nella Sacra Scrittura: poiché la sana filosofia asserisce come cosa sicura che i sensi, nella percezione immediata delle cose, oggetto vero di conoscenza, non si ingannano affatto. Inoltre il Nostro Predecessore, dopo aver negato ogni distinzione e ogni possibilità di equivoco tra quello che è l’elemento principale e l’elemento secondario, dimostra chiaramente il gravissimo errore di coloro i quali ritengono che per « giudicare della verità delle proposizioni bisogna senza dubbio ricercare ciò che Dio ha detto, ma più ancora valutare il motivo che Lo ha indotto a parlare ». Leone XIII precisa ancora che l’ispirazione divina è presente in tutte le parti della Bibbia, senza selezione né distinzione alcuna, e che è impossibile che anche il minimo errore si sia introdotto nel testo ispirato: « Sarebbe un errore molto grave restringere l’ispirazione divina solo a determinate parti della Sacra Scrittura, o ammettere che lo stesso autore sacro abbia potuto ingannarsi ».
E non sono meno discordi dalla dottrina della Chiesa, confermata dall’autorità di Girolamo e degli altri Padri, quelli che ritengono che le parti storiche delle Scritture si appoggiano non sulla verità assoluta dei fatti, ma soltanto sulla loro verità relativa, come essi la chiamano, e sul modo volgarmente comune di pensare. Per sostenere questa teoria essi non temono di richiamarsi alle stesse parole del Papa Leone XIII, il quale avrebbe affermato che i princìpi ammessi in materia di fenomeni naturali possono essere portati in campo storico. Come nell’ordine fisico gli scrittori sacri hanno parlato seguendo le apparenze, così — essi pretendono — quando si trattava di riportare avvenimenti non perfettamente noti, li hanno riferiti come apparivano fissati secondo l’opinione comune del popolo o le relazioni inesatte di altri testimoni; inoltre essi non hanno citato le fonti delle loro informazioni, e non hanno garantito personalmente le narrazioni attinte da altri autori.
A che confutare più a lungo una teoria veramente ingiuriosa per il Nostro Predecessore, e nello stesso tempo falsa e piena di errore? Quale rapporto, infatti, vi è tra i fenomeni naturali e la storia? Le scienze fisiche si occupano di oggetti che colpiscono i sensi e devono quindi concordare con i fenomeni come essi appaiono; la storia, invece, narrazione di fatti, deve (ed è questa la sua legge principale) coincidere con questi fatti, come realmente si sono verificati. Se si accettasse la teoria di costoro, come sarebbe possibile conservare alla narrazione sacra quella verità, immune da ogni falsità, che, come il Nostro Predecessore dichiara in tutto il contesto della sua Enciclica, non si deve affatto menomare?
Anzi, quando egli afferma che v’é interesse a trasportare nella storia e nelle scienze affini i princìpi che valgono per le scienze fisiche, non intende stabilire una legge generale e assoluta, ma indicare semplicemente un metodo uniforme da seguire, per confutare le obiezioni fallaci degli avversari e difendere contro i loro attacchi la verità storica della Sacra Scrittura.
Almeno i sostenitori di queste innovazioni si fermassero qui; invece essi giungono al punto d’invocare il Dottore di Stridone per difendere la loro opinione, attribuendogli di avere dichiarato che bisogna mantenere l’esattezza e l’ordine dei fatti storici nella Bibbia « prendendo per regola non la realtà obiettiva ma l’opinione dei contemporanei », che veniva così a costituire la vera legge della storia [44].
Come sono abili a trasformare in loro favore le parole di Girolamo! Ma non è possibile avere dubbi sul suo esatto pensiero: egli non afferma che nell’esposizione dei fatti lo scrittore sacro si appropria di una falsa credenza popolare a proposito di dati che ignora, ma dice soltanto che nella designazione delle persone e degli oggetti egli usa il linguaggio corrente. Così, quando uno scrittore chiama San Giuseppe padre di Gesù, indica chiaramente in tutto il corso della sua narrazione come intenda questo nome di padre.
Secondo Girolamo, « la vera legge della storia » richiede che nell’impiego delle denominazioni lo scrittore si attenga, dopo avere eliminato ogni pericolo di errore, al modo generale di esprimersi; poiché l’uso è l’arbitro e il regolatore del linguaggio. E che? Forse che il nostro Dottore non pone sullo stesso piano i fatti riportati dalla Bibbia e i dogmi nei quali è necessario credere, se si vuol raggiungere la salvezza eterna? Ecco infatti ciò che leggiamo nel suo Commentario sulla Lettera a Filemone: «Quanto a me, ecco ciò che penso: uno crede in Dio creatore: ciò non gli sarebbe possibile s’egli non credesse alla verità di tutto ciò che la Scrittura riporta riguardo ai suoi Santi ». E compila una lunghissima serie di citazioni tratte dall’Antico Testamento, concludendo: « Chiunque rifiuti di prestar fede a tutti questi fatti e a tutti gli altri, senza eccezione alcuna, riguardanti i Santi, non potrà credere al Dio dei Santi » [45].
Girolamo si trova quindi in perfetto accordo con Agostino, il quale, interprete del sentimento comune di tutta l’antichità, così scriveva: «Noi crediamo tutto ciò che la Sacra Scrittura, posta al supremo culmine dell’autorità dalle testimonianze sicure e venerabili della verità, ci attesta riguardo ad Enoch, ad Elia e a Mosè. Così se noi crediamo che il Verbo è nato dalla Vergine Maria, non è per il fatto ch’Egli non avrebbe potuto trovare altro mezzo per assumere una forma realmente incarnata, e per manifestarsi agli uomini (come sosteneva Fausto), ma perché così è detto in quella Scrittura, alla quale dobbiamo prestar fede se vogliamo rimanere cristiani e salvarci » [46]. Vi è poi un altro gruppo di denigratori della Sacra Scrittura: intendiamo parlare di coloro che, abusando di certi princìpi, giusti del resto se si mantengono entro determinati limiti, giungono a distruggere la base della veridicità delle Scritture, e a denigrare la dottrina cattolica trasmessa dai Padri.
Se vivesse ancora, Girolamo lancerebbe acuminati strali contro costoro che, disprezzando il sentimento e il giudizio della Chiesa, ricorrono con troppa facilità a quel sistema da essi definito « delle citazioni implicite » o delle narrazioni che sono storiche soltanto apparentemente; essi pretendono di scoprire nei Libri Sacri procedimenti letterari inconciliabili con l’assoluta e perfetta veracità della parola divina, e professano sull’origine della Bibbia un’opinione che tende unicamente a scuoterne l’autorità o addirittura ad annullarla. E che pensare di coloro che, nell’interpretazione del Vangelo, ne diminuiscono l’autorità umana e ne distruggono quella divina? Secondo costoro, delle parole, delle opere di Nostro Signor Gesù Cristo, nulla ci è pervenuto, nella sua integrità e senza alterazioni, malgrado le testimonianze di coloro che hanno riportato con religiosa cura ciò che avevano visto e udito; essi non vi vedono — soprattutto per ciò che concerne il IV Vangelo — che una compilazione costituita da un lato dalle aggiunte considerevoli dovute all’immaginazione degli Evangelisti, e dall’altro dal racconto di fedeli di altra epoca; queste correnti perciò, sgorganti da dubbia fonte, hanno oggi così ben confuso le acque nello stesso letto, che non è possibile assolutamente avere un criterio sicuro per distinguerle.
Non è così che Girolamo, Agostino e gli altri Dottori della Chiesa hanno compreso il valore storico dei Vangeli, nei quali: « Chi ha visto ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è vera. Ed egli sa di dire il vero affinché anche voi lo crediate » [47]. Girolamo, dopo aver rimproverato agli eretici, autori di Vangeli apocrifi, di « aver tentato più di ordinare la narrazione che di stabilire la verità » [48], aggiunge al contrario, a proposito dei Libri Canonici: «Nessuno ha il diritto di mettere in dubbio la realtà di quello che è scritto » [49]. Su questo punto è ancora una volta d’accordo con Agostino, il quale in modo eccellente diceva, a proposito dei Vangeli: «Queste cose vere sono state scritte con tutta fedeltà e veracità, affinché chiunque creda nel suo Vangelo, sia nutrito di verità, e non sia ingannato da menzogne » [50].
Voi vedete quindi, Venerabili Fratelli, con quale ardore dovete consigliare ai figli della Chiesa di scacciare questa folle libertà d’opinione con lo stesso impegno che avevano i Padri. Le vostre esortazioni saranno più facilmente ascoltate se convincerete il clero e i fedeli, affidati alla vostra custodia dallo Spirito Santo, che Girolamo e gli altri Padri della Chiesa hanno attinto questa dottrina riguardante i Libri Sacri alla scuola dello stesso Divino Maestro Gesù Cristo. Infatti, leggiamo noi forse che Nostro Signore abbia avuto una diversa concezione della Scrittura? Le parole: « È scritto e bisogna che la Scrittura s’avveri » sono sulle Sue labbra un argomento senza eccezioni, tale da escludere ogni possibile controversia.
Ma soffermiamoci un poco su questo argomento. Chi non sa o non ricorda come nei Suoi discorsi al popolo, sia sulla montagna prossima al lago di Genezareth, sia nella sinagoga di Nazareth e nella Sua città di Cafarnao, il Signore Gesù traeva i punti principali e le prove della Sua dottrina dal testo sacro? Non è da esso che Egli attingeva armi invincibili per le discussioni con i Farisei e i Sadducei? Sia che insegni o discuta, Egli riporta affermazioni ed esempi assolutamente credibili, tolti da ogni parte della Scrittura; così quando si riferisce indistintamente a Giona, agli abitanti di Ninive, alla regina di Saba e a Salomone, ad Elia e ad Eliseo, a Davide, a Noè, a Loth, agli abitanti di Sodoma e alla moglie stessa di Loth [51]. Egli rende una grande testimonianza alla verità dei Santi Padri con la solenne dichiarazione: «Non passerà un solo iota o un solo tratto della legge, finché tutto non sia adempiuto » [52]; e ancora: « La Scrittura non può essere annullata » [53]; perciò: « Colui che avrà violato anche il più lieve di questi comandamenti e insegnato agli uomini a fare altrettanto, sarà il più trascurabile nel regno dei Cieli » [54].
Prima di raggiungere il Padre Suo in Cielo, Egli volle donare questa dottrina agli Apostoli, che ben presto doveva abbandonare sulla terra: « Aprì loro la mente affinché comprendessero le Scritture, e disse: Così sta scritto; il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno » [55].
La dottrina di Girolamo sull’eccellenza e la verità della Scrittura è dunque, per esprimerCi brevemente, la dottrina di Cristo stesso. Perciò Noi esortiamo vivamente tutti i figli della Chiesa, e in particolar modo coloro che insegnano Sacra Scrittura agli studenti ecclesiastici, a seguire con perseveranza la via tracciata dal Dottore di Stridone; ne risulterà certamente che essi avranno per le Scritture la stessa profonda stima, e che il possesso di questo tesoro procurerà loro godimenti sublimi.
Prendendo il Massimo Dottore come guida e maestro, non solo giungeranno i grandi vantaggi che abbiamo sopra ricordato, ma ne deriveranno molti altri rilevanti che Ci piace, Venerabili Fratelli, considerare brevemente con voi.
Innanzi tutto, poiché prima di ogni altro si presenta al Nostro spirito, rileviamo l’appassionato amore per la Bibbia, testimoniato in Girolamo da ogni atto della sua vita e dalle sue parole, tutte infervorate dallo spirito di Dio: amore che egli ha cercato di destare sempre più nelle anime dei fedeli: « Ama la Sacra Scrittura — sembra voler dire a tutti quando si rivolge alla vergine Demetria — e la saggezza ti amerà; amala teneramente, ed essa ti custodirà; onorala e riceverai le sue carezze. Che essa sia per te come le tue collane e i tuoi orecchini » [56]. La lettura assidua della Scrittura, lo studio profondo e diligente di ogni libro, anzi di ogni proposizione e di ogni parola, gli hanno permesso di familiarizzarsi col Testo Sacro, più di ogni altro scrittore dell’antichità ecclesiastica.
Se la Versione Volgata, compilata dal nostro Dottore, lascia, secondo i pareri di tutti i critici imparziali, molto dietro di sé le altre versioni antiche, perché si giudica che essa renda l’originale con maggiore esattezza ed eleganza, ciò è dovuto alla conoscenza che Girolamo aveva della Bibbia ed al suo spirito di sottile sensibilità.
Questa Versione Volgata, che il Concilio di Trento ha deciso di considerare autentica e di seguire nell’insegnamento e nella liturgia, « essendo consacrata dal lungo uso che ne ha fatto la Chiesa per tanti secoli », è Nostro vivo desiderio vedere corretta e resa alla sua purezza primitiva, secondo l’antico testo dei manoscritti, se Dio nella sua infinita bontà vorrà concederCi vita sufficiente; compito arduo e laborioso, affidato, con provvidenziale decisione, ai Benedettini dal Nostro Predecessore Pio X di felice memoria, dal quale, Noi ne siamo sicuri, deriveranno nuove fonti autorevoli per la comprensione delle Scritture. Questo amore di Girolamo per la Sacra Scrittura si rivela in modo del tutto particolare nelle sue lettere, sì che esse sembrano una trama di citazioni tratte dai Libri Santi; come Bernardo trovava insignificante ogni pagina che non racchiudesse il dolcissimo nome di Gesù, così Girolamo non gustava nessuno scritto che non splendesse della luce delle Sacre Scritture. Con tutta semplicità egli poteva scrivere in una lettera a San Paolino, un tempo brillante senatore e console, e da poco convertito alla fede di Cristo: « Se tu avessi questo terreno d’appoggio (voglio dire la conoscenza delle Scritture), le tue opere nulla avrebbero da perdere, ma acquisterebbero anzi una certa bellezza, e non cederebbero a nessun’altra per l’eleganza, per la scienza e per la finezza della forma... Unisci a questa dotta eloquenza il gusto o la comprensione delle Scritture, e presto ti vedrò posto nelle prime file dei nostri scrittori » [57].
Ma la via e il metodo da seguire per cercare con lieta speranza di scoprire quel prezioso tesoro, che il Padre Celeste ha donato ai suoi figli quale consolazione durante il loro esilio, sono forniti dallo stesso Girolamo con il suo esempio. Innanzi tutto egli ci esorta ad intraprendere lo studio della Scrittura con accurata preparazione e con animo ben disposto. Egli stesso, infatti, dopo aver ricevuto il Battesimo, per superare tutti gli ostacoli esteriori che potevano opporsi al suo santo desiderio, imitando il personaggio del Vangelo che, dopo aver trovato un tesoro, « se ne va pieno di gioia, vende tutto ciò che possiede ed acquista quel campo » [58], egli dice addio ai piaceri effimeri e frivoli di questo mondo, desidera ardentemente la solitudine ed abbraccia una vita austera con tanto maggior ardore quanto più si è reso conto del pericolo che fino allora aveva corso la sua salvezza in mezzo alle seduzioni del vizio.
Superati questi ostacoli, egli doveva ancora, d’altra parte, disporre il suo spirito ad acquistare la scienza di Gesù Cristo e a rivestirsi di Colui che è « dolce ed umile di cuore »; aveva in realtà provato quella stessa ripugnanza che Agostino confessava di aver sofferto quando si era accinto allo studio delle Sante Lettere. Dopo essersi dedicato durante la sua giovinezza alla lettura di Cicerone e di altri autori, quando volle rivolgere il suo spirito alla Scrittura Sacra, così si espresse: «Mi parve indegna d’essere paragonata alla bellezza della prosa Ciceroniana. La mia enfasi aveva orrore della sua semplicità, e la mia intelligenza non penetrava nel suo più profondo. Tuttavia si riesce a penetrarla sempre meglio, quanto più ci si fa piccini, ma io disdegnavo di farmi piccolo, e la boria m’ingigantiva dinanzi ai miei stessi occhi » [59].
Non altrimenti Girolamo, il quale nella sua solitudine gustava a tal punto la letteratura profana, che la povertà di stile delle Scritture gli impediva ancora di riconoscere in esse l’umiltà di Cristo. « Così — egli dice — la mia follia mi portava al punto di digiunare per leggere Cicerone. Dopo aver passato molte notti insonni, dopo aver versato molte lacrime che il ricordo delle colpe passate faceva scaturire dal fondo del mio cuore, prendevo in mano Plauto. E quando, ritornato in me stesso, intraprendevo la lettura dei Profeti, il loro barbaro stile mi inorridiva, e quando i miei occhi ciechi restavano chiusi alla luce, io non accusavo di ciò gli stessi miei occhi, ma il sole » [60]. Ma ben presto amò con tale ardore la follia della Croce, da rimanere la prova vivente di quanto un animo umile e pio contribuisca alla comprensione della Bibbia.
Pertanto, consapevole che « nell’interpretazione della Sacra Scrittura noi abbiamo sempre bisogno del soccorso dello Spirito Santo » [61] e che per la lettura e la comprensione dei Libri santi dobbiamo attenerci « al senso che lo Spirito Santo intendeva avere al momento in cui furono scritti » [62], questo santissimo uomo invocava con le sue suppliche, rafforzate dalle preghiere dei suoi amici, il soccorso di Dio e il lume dello Spirito Santo. Si racconta anche che, iniziando i Commentari dei Libri santi, egli volle raccomandarli alla grazia di Dio e alle preghiere dei confratelli, alle quali attribuì il successo, dopo che l’opera fu compiuta. Inoltre, oltre che alla grazia divina, egli si rimette all’autorità della tradizione così pienamente da affermare di avere appreso « tutto quello che non sapeva, non da se stesso, cioè alla scuola di quel cattivo maestro che è l’orgoglio, ma dagli illustri Dottori della Chiesa » [63].
Confessa infatti « di non essersi mai fidato delle proprie forze per ciò che concerne la Sacra Scrittura » [64], e in una lettera a Teofilo, Vescovo d’Alessandria, egli così formula la regola secondo la quale aveva ordinato la sua vita e le sue sante fatiche: « Sappi dunque che nulla ci sta più a cuore che salvaguardare i diritti del Cristianesimo, non cambiar nulla al liguaggio dei Padri e non perdere mai di vista la fede Romana, di cui l’Apostolo fece l’elogio » [65]. E alla Chiesa, sovrana padrona nella persona dei Romani Pontefici, Girolamo si sottomette con tutto il suo spirito di devozione.
Dal deserto della Siria, ove era esposto alle fazioni degli eretici, in questi termini scrive a Papa Damaso, volendo sottoporre alla Santa Sede, perché la risolvesse, la controversia degli Orientali sul mistero della Santissima Trinità: « Ho creduto bene di consultare la Cattedra di Pietro e la fede glorificata dalla parola dell’Apostolo, per chiedere oggi il nutrimento all’anima mia, laddove un tempo ho ricevuto i paramenti di Cristo... Poiché voglio che Egli sia per me unica guida, mi tengo in stretto legame con la Tua Beatitudine, cioè con la Cattedra di Pietro. Io so che su quella pietra è edificata la Chiesa... Decidete, ve ne prego; se così stabilite non esiterò ad ammettere tre persone; se voi l’ordinate, io accetterò che una nuova fede sostituisca quella di Nicea e che noi, ortodossi, ci serviamo delle stesse formule che usano gli Ariani » [66]. Infine, nell’epistola successiva, egli rinnova questa notevolissima confessione della sua fede: «Nell’attesa, grido a tutti i venti: Io sono con chiunque sia unito alla Cattedra di Pietro » [67]. Sempre fedele, nello studio della Scrittura, a tale regola di fede, egli si vale di questo solo argomento per confutare un’interpretazione falsa del Testo sacro: «Ma la Chiesa di Dio non ammette affatto questa opinione » [68], e con queste sole parole rifiuta un libro apocrifo, contro di lui sostenuto dall’eretico Vigilanzio: «Questo libro non l’ho mai letto. Che bisogno dunque abbiamo di ricorrere a ciò che la Chiesa non riconosce? » [69]. Uno zelo vivissimo nel salvaguardare l’integrità della fede lo trascinava in polemiche molto dibattute contro i figli ribelli della Chiesa, che egli considerava come nemici personali: «Mi basterà rispondere che non ho mai avuto riguardo per gli eretici e che ho impiegato tutto il mio zelo per fare dei nemici della Chiesa i miei personali nemici » [70]; e in una lettera a Rufino così scrive: «Vi è un punto sul quale non potrò essere d’accordo con te: risparmiare gli eretici e non mostrarmi cattolico » [71]. Tuttavia, rattristato per la loro defezione, li supplicava di ritornare alla loro Madre addolorata, fonte unica di salvezza [72], e in favore di coloro « che erano usciti dalla Chiesa e avevano abbandonato la dottrina dello Spirito Santo per seguire il proprio criterio », invocava con tutto il cuore che ritornassero a Dio [73].
Venerabili Fratelli, se fu mai necessario che tutto il clero e tutti i fedeli s’imbevessero dello spirito del Massimo Dottore, questo è soprattutto nella nostra epoca, quando numerosi spiriti insorgono con arroganza contro l’autorità della rivelazione divina e del magistero della Chiesa. Voi sapete infatti — Leone XIII già ci aveva ammonito — « quali uomini si accaniscano in questa lotta e a quali artifici o a quali armi essi ricorrano ». Quale categorico dovere si impone dunque a voi, di suscitare per questa sacra causa i difensori più numerosi e più competenti che sia possibile: essi dovranno combattere non solo coloro che, negando ogni ordine soprannaturale, non riconoscono né la rivelazione né l’ispirazione divina, ma dovranno anche misurarsi con coloro che, assetati di novità profane, osano interpretare le Lettere sacre come un libro puramente umano, o rifiutano le opinioni accolte dalla Chiesa fin dalla più vetusta antichità, o spingono il loro disprezzo verso il suo magistero fino al punto di disdegnare, di passar sotto silenzio o persino di cambiare secondo il proprio interesse, alterandole sia subdolamente, sia con sfrontatezza, le Costituzioni della Sede Apostolica e i decreti della Commissione Pontificia per gli studi biblici. Ci auguriamo di vedere tutti i cattolici seguire l’aurea regola del santo Dottore e, docili agli ordini della loro Madre, avere la modestia di non oltrepassare i limiti tradizionali fissati dai Padri e approvati dalla Chiesa.
Ma ritorniamo al nostro argomento. Armati gli spiriti di pietà e di umiltà, Girolamo li invita allo studio della Bibbia. Dapprima raccomanda instancabilmente a tutti la lettura quotidiana della parola divina: « Liberiamo il nostro corpo dal peccato, e l’anima nostra si aprirà alla saggezza; coltiviamo la nostra intelligenza con la lettura dei Libri Santi, e la nostra anima vi trovi ogni giorno il suo nutrimento » [74]. E nel suo commento all’Epistola agli Efesini egli scrive: « Pertanto, noi dobbiamo con tutto l’ardore leggere le Scritture, e meditare giorno e notte la legge del Signore; potremo così, come abili cambiavalute, distinguere le monete buone da quelle false » [75]. Egli non esclude da questo obbligo comune le matrone e le vergini. Alla matrona romana Leta dà, fra gli altri, questi consigli sull’educazione della figlia: « Assicurati che ella studi ogni giorno qualche passo della Scrittura... Che invece dei gioielli e delle sete ami i Libri divini... Ella dovrà dapprima imparare il Salterio, distrarsi con questi canti e attingere una regola di vita dai Proverbi di Salomone. L’Ecclesiaste le insegnerà a calpestare, sotto i piedi, i beni di questo mondo; Giobbe le darà un modello di forza e di pazienza. Passerà poi ai Vangeli, che dovrà avere sempre fra le mani. Dovrà assimilare avidamente gli Atti degli Apostoli e le Epistole. Dopo avere arricchito di questi tesori il mistico scrigno della sua anima, imparerà a memoria i Profeti, l’Eptateuco, i libri dei Re e dei Paralipomeni, i volumi di Esdra e di Ester, per finire senza pericolo col Cantico dei Cantici » [76]. Né diversamente Girolamo esorta la vergine Eustochio: « Sii molto assidua alla lettura e allo studio, quanto più ti è possibile. Che il sonno ti colga con il libro in mano e che la pagina sacra riceva il tuo capo caduto per la fatica » [77].
Nell’elogio funebre che Girolamo inviò a Eustochio riguardante la madre sua Paola, lodava anche questa santissima donna per avere, insieme alla figlia, coltivato a tal punto lo studio delle Scritture, da conoscerle a fondo e ricordarle a memoria. Ed aggiungeva ancora: « Rileverò questo dettaglio, che sembrerà forse incredibile ai suoi emuli: ella volle imparare l’ebraico, che io stesso in parte studiai fin dalla mia giovinezza al prezzo di molte fatiche e di molti sudori, e che continuo ad approfondire con incessante lavoro per non dimenticarlo; ella arrivò ad avere una tale padronanza di questa lingua, da cantare i salmi in ebraico e da parlarlo senza il minimo accento latino. E questo si ripete ancora oggi nella sua santa figlia Eustochio » [78]. Né tralascia di ricordare santa Marcella, ugualmente versata nella scienza delle Scritture [79].
Chi non vede quali vantaggi e quali godimenti riserva agli spiriti ben disposti la lettura pia del Libri santi? Chiunque prenda contatto con la Bibbia con sentimenti di pietà, di salda fede e di umiltà, e col desiderio di perfezionarsi, vi troverà e vi potrà gustare il pane sceso dal cielo e in lui si verificherà la parola di Davide: «Mi hai rivelato i segreti e i misteri della tua saggezza » [80]; su questa tavola della parola divina si trova infatti veramente la « dottrina santa; essa insegna la vera fede, solleva il velo [del Santuario], e conduce con fermezza fino al Sancta Sanctorum » [81].
Per quanto sta in Noi, Venerabili Fratelli, non cesseremo mai, sull’esempio di Girolamo, di esortare tutti i cristiani a leggere quotidianamente e intensamente soprattutto i santissimi Vangeli di nostro Signore, nonché gli Atti degli Apostoli e le Epistole, in modo da mutarli in sostanza vitale e sangue. Pertanto, nella occasione di questo centenario, si presenta al Nostro pensiero il piacevole ricordo della Società detta di San Girolamo, ricordo tanto più caro in quanto abbiamo preso parte Noi stessi, agl’inizi e all’organizzazione definitiva dl quest’Opera; felici di aver potuto constatare i suoi passati sviluppi, confidiamo in altri successi futuri.
Voi conoscete, Venerabili Fratelli, lo scopo di questa Società: estendere la diffusione dei quattro Vangeli e degli Atti degli Apostoli, in modo che questi libri trovino finalmente il loro posto in ogni famiglia cristiana, e che ognuno prenda l’abitudine di leggerli e meditarli ogni giorno. Noi desideriamo vivamente vedere che quest’Opera, che tanto amiamo per averne constatata l’utilità, si propaghi e si sviluppi ovunque con la fondazione, in ognuna delle vostre diocesi, di Società aventi lo stesso nome e lo stesso scopo; tutte collegate con la casa madre di Roma.
Nello stesso ordine di idee i più preziosi servizi sono resi alla causa cattolica da coloro che in diversi paesi hanno offerto, ed offrono ancora, tutto il loro zelo, per pubblicare in formato comodo ed attraente, e per diffondere tutti i libri del Nuovo Testamento e una scelta dei libri dell’Antico. È certo che questo apostolato è stato singolarmente fecondo per la Chiesa di Dio, poiché, grazie a quest’opera, un gran numero di anime si avvicina ormai a questa mensa della dottrina celeste, che nostro Signore ha preparato all’universo cristiano per mezzo dei suoi Profeti, dei suoi Apostoli e dei suoi Dottori [82].
Girolamo raccomanda con insistenza a tutti i fedeli il dovere di studiare il Testo Sacro, ma lo impone in modo particolare a coloro che « hanno piegato il collo al giogo di Cristo » ed hanno la celeste vocazione di predicare la parola di Dio. Ecco l’esortazione che, nella persona del monaco Rustico, Girolamo rivolge a tutto il clero: « Fino a che sei nella tua patria, fa’ della tua celletta un paradiso; cogli i diversi frutti delle Scritture; godi delle delizie di questi Libri e della loro intimità... Abbi sempre la Bibbia in mano e sotto gli occhi; impara parola per parola il Salterio, e fa in modo che la tua preghiera sia incessante e il tuo cuore costantemente vigile e chiuso ai pensieri vani » [83]. Al prete Nepoziano dà questo consiglio: « Leggi con molta frequenza le divine Scritture; anzi, il Libro santo non sia mai deposto dalle tue mani. Impara qui quello che tu devi insegnare. Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la santa dottrina e confutare coloro che la contraddicono » [84].
Dopo aver ricordato a San Paolino i precetti impartiti da San Paolo ai suoi discepoli Timoteo e Tito, riguardanti la scienza delle Scritture, Girolamo aggiunge: « La santità senza la scienza non giova che a se stessa; e quanto essa edifica la Chiesa di Cristo per mezzo di una vita virtuosa, altrettanto nuoce se non respinge gli attacchi dei suoi nemici. Il profeta Malachia, o piuttosto il Signore stesso per bocca sua, diceva: “ Consulta i sacerdoti sulla Legge ” Data da allora il dovere che ha un sacerdote di dare ragguagli sulla Legge a coloro che l’interrogano. Leggiamo inoltre nel Deuteronomio: “Domanda a tuo padre ed egli te lo indicherà, ai tuoi sacerdoti ed essi te lo diranno ”. Daniele, alla fine dalla sua santissima visione, dice che i giusti brillano come stelle, e gli intelligenti — cioè i sapienti — come il firmamento. Vedi tu quale distanza separa la santità senza scienza dalla scienza rivestita di santità? La prima ci rende simili alle stelle, la seconda simili allo stesso Cielo » [85]. In altra circostanza, in una lettera a Marcella, egli motteggia ironicamente la « virtù senza scienza » di altri chierici: «Questa ignoranza tiene luogo per loro di santità, ed essi si dichiarano discepoli dei pescatori, come se facessero consistere la loro santità nel non saper niente » [86]. Ma questi ignoranti non sono i soli — rileva Girolamo — a commettere l’errore di non conoscere le Scritture; questo è anche il caso di alcuni chierici istruiti; ed egli impiega i termini più severi per raccomandare ai preti la pratica assidua dei Libri Santi.
Venerabili Fratelli, dovete cercare con tutto il vostro zelo di imprimere questi insegnamenti del santissimo esegeta, il più profondamente possibile, nello spirito del vostro clero e dei vostri fedeli; uno dei vostri primi doveri è infatti quello di riportare, con somma diligenza, la loro attenzione su ciò che la missione divina loro affidata richiede, se essi non vogliono mostrarsene indegni: « Infatti le labbra del Sacerdote saranno i custodi della scienza, e dalla sua bocca si richiederà l’insegnamento, perché egli è l’angelo del Signore degli eserciti » [87]. Essi sappiano dunque che non devono né trascurare lo studio delle Scritture, né dedicarvisi con spirito diverso da quello che Leone XIII ha espressamente imposto nella sua Enciclica Providentissimus Deus.
Otterranno sicuramente risultati migliori se frequenteranno l’Istituto Biblico che il Nostro immediato Predecessore, realizzando il desiderio di Leone XIII, ha fondato con grande beneficio per la Chiesa, come chiaramente dimostra l’esperienza degli ultimi dieci anni. Poiché la maggior parte non ne ha la possibilità, è desiderabile, Venerabili Fratelli, che per vostra iniziativa, e sotto i vostri auspici, i membri scelti dell’uno e dell’altro clero di tutto il mondo vengano a Roma per dedicarsi agli studi biblici del Nostro Istituto. Gli studenti che risponderanno a questo appello avranno molti motivi per seguire le lezioni di questo Istituto. Gli uni — e questo è lo scopo principale dell’Istituto — approfondiranno le scienze bibliche « per essere a loro volta in grado di insegnarle, privatamente o in pubblico, con la penna o con la parola, e per sostenerne l’onore sia come professori, nelle scuole cattoliche, sia come scrittori, esponenti della verità cattolica » [88]; gli altri poi, già iniziati al santo ministero, potranno accrescere le cognizioni acquisite durante i loro studi teologici, sulla Santa Scrittura, sulle autorità esegetiche, sulle cronologie e sulle topografie bibliche; questo perfezionamento avrà soprattutto il vantaggio di far sì che essi diventino ministri perfetti della parola divina, preparati ad ogni forma di bene [89].
Venerabili Fratelli, l’esempio e le autorevoli dichiarazioni di Girolamo ci hanno indicato le virtù necessarie per leggere e studiare la Bibbia. Ora ascoltiamolo quando ci indica dove deve tendere la conoscenza delle Lettere Sacre, e quale deve esserne lo scopo.
Ciò che bisogna innanzi tutto cercare nella Scrittura è il nutrimento che alimenti la nostra vita spirituale e la faccia procedere sulla via della perfezione: è con questo scopo che Girolamo s’abituò a meditare giorno e notte la legge del Signore e a nutrirsi, nelle Sacre Scritture, del Pane disceso dal Cielo e della manna celeste, che raduna in sé tutte le delizie [90].
In qual modo la nostra anima potrà fare a meno di questo cibo? E come il sacerdote potrà indicare agli altri la via della salvezza se trascura egli stesso di istruirsi attraverso la meditazione della Scrittura? E con quale diritto confiderà nel suo sacro ministero « d’essere la guida dei ciechi, la luce di coloro che sono nelle tenebre, il dottore degli ignoranti, il maestro dei fanciulli, colui che ha, nella legge, la regola della scienza e della verità » [91], se rifiuterà di scrutare questa scienza della legge e chiuderà la sua anima alla luce che viene dall’alto? Ahimé! Quanti sono i ministri consacrati che, per aver trascurato la lettura della Bibbia, muoiono essi stessi di fame e lasciano morire un così gran numero di altre anime, secondo quanto sta scritto: « I piccoli figli domandano pane, e non v’è nessuno che lo doni loro »! [92] «Tutta la terra è desolata perché non v’é nessuno che mediti in cuor suo » [93].
Inoltre, come il bisogno richiede, è necessario ricercare nelle Scritture gli argomenti per rischiarare, rafforzare e difendere i dogmi della fede. Questo meravigliosamente ha fatto Girolamo combattendo contro gli eretici del suo tempo. Quando voleva confonderli, quali armi ben pungenti e solide egli abbia trovato nei testi delle Scritture, lo dimostrano chiaramente tutte le sue opere.
Se gli esegeti di oggi imiteranno il suo esempio, ne deriverà senza alcun dubbio — come disse il Nostro Predecessore nella sua Enciclica Providentissimus Deus — « un risultato infinitamente desiderabile e necessario; l’uso della Sacra Scrittura influirà su tutta la scienza teologica e ne sarà, in un certo senso, l’anima ».
Infine la Sacra Scrittura servirà in modo speciale a santificare e a fecondare il ministero della parola divina. A questo punto Ci è particolarmente gradito poter confermare, con la testimonianza del grande Dottore, le direttive che Noi stessi abbiamo tracciato sulla predicazione sacra nella Nostra Lettera Enciclica Humani generis. Invero, se l’illustre commentatore consiglia così vivamente e con tanta frequenza ai sacerdoti l’assidua lettura dei Libri Sacri, è soprattutto perché essi adempiano degnamente il loro ministero d’insegnamento e di predicazione. La loro parola infatti perderebbe ogni influenza e ogni autorità, come anche ogni efficacia per la formazione delle anime, se non si ispirasse alla Sacra Scrittura e non vi attingesse forza e vigore. « La lettura dei Libri Santi sarà come il condimento alla parola del sacerdote » [94]. Infatti « ogni parola della Sacra Scrittura è come una tromba che fa risuonare agli orecchi dei credenti la sua grande voce minacciosa » [95]. «Nulla suscita tanta impressione come un esempio tratto dalla Sacra Scrittura » [96].
Quanto agli insegnamenti del santo Dottore sulle regole da osservarsi nell’uso della Bibbia, sebbene rivolti principalmente agli esegeti, tuttavia non devono essere persi di vista dai sacerdoti nella predicazione della parola divina.
Dapprima ci insegna che noi dobbiamo, con un esame molto attento delle parole stesse della Scrittura, assicurarci, senza alcuna possibilità di dubbio, di ciò che l’autore sacro ha scritto. Nessuno infatti ignora che Girolamo era solito ricorrere, in caso di bisogno, al testo originale, confrontare fra loro le differenti interpretazioni, valutare la portata delle lezioni, e se scopriva un errore, ricercarne la causa, in modo da scartare dal testo ogni incertezza. Allora, insegna il nostro Dottore, è « necessario ricercare il senso e il concetto che si nascondono sotto le parole, poiché per discutere sulla Sacra Scrittura ha maggior importanza il significato che la parola » [97].
In questa ricerca di penetrare il significato, Noi lo riconosciamo senza alcuna difficoltà, Girolamo, seguendo l’esempio dei Dottori latini e di alcuni Dottori greci del periodo anteriore, ha forse concesso alle interpretazioni allegoriche più di quanto fosse esatto concedere. Ma il suo amore per i Libri Santi, il suo sforzo costante per identificarli e comprenderli a fondo, gli permisero di fare ogni giorno un nuovo progresso nel giusto apprezzamento del senso letterale e di formulare su questo punto validi princìpi. Noi li riassumiamo brevemente, poiché essi costituiscono ancora oggi la via sicura che tutti devono seguire per trarre dai Libri Santi il vero significato. È dunque necessario per prima cosa volgere il nostro animo alla ricerca del senso letterale o storico: « Io dò sempre ai lettori prudenti il consiglio di non accettare interpretazioni superstiziose, che isolano brani del testo secondo il capriccio della fantasia, ma di ben esaminare ciò che succede, ciò che accompagna e ciò che segue il punto in questione, sì da stabilire un collegamento fra tutti i brani » [98].
Tutti gli altri metodi per interpretare le Scritture — egli aggiunge — si basano sul senso letterale [99], e non v’è ragione di credere che questo manchi quando s’incontra una espressione figurata, poiché « spesso la storia è intessuta di metafore ed usa uno stile ricco di immagini » [100]. Alcuni pretendono sostenere che il nostro Dottore ha dichiarato che non si rileva in certi passi delle Scritture un senso storico; egli stesso ribatte loro: « Senza negare il senso storico, noi adottiamo di preferenza quello spirituale » [101].
Stabilito con certezza il senso letterale o storico, Girolamo ricerca i sensi meno ovvi e più profondi, per nutrire il proprio spirito d’un alimento più eletto. Egli tiene lezioni sui libri dei Proverbi, e a proposito di altri libri della Scrittura consiglia più volte di non fermarsi al puro senso letterale, « ma di penetrare più a fondo, per scorgervi il senso divino, così come si cerca l’oro nel seno della terra, il nocciolo sotto la scorza, il frutto che si nasconde sotto il riccio della castagna » [102]. Perciò egli indicava a San Paolino « la via da seguire nello studio delle Sacre Scritture: Tutto ciò che leggiamo nei Libri divini splende invero nella sua scorza fulgida e brillante, ma è ancor più dolce nel midollo. Chi vuol gustare il frutto rompa il guscio » [103].
Girolamo afferma tuttavia la necessità di usare, nella riceroa del senso nascosto, una certa discrezione, « affinché il desiderio della ricchezza del senso spirituale non sembri farci disprezzare la povertà del senso storico » [104].
Pertanto egli rimprovera a molte interpretazioni mistiche di antichi scrittori di aver completamente trascurato di appoggiarsi al senso letterale: «Non bisogna ridurre tutte le promesse che i santi profeti hanno cantato, nel loro senso letterale, a non essere altro che forme vuote e termini estrinseci di una semplice figura di retorica; esse devono, al contrario, posare su un terreno ben fermo che è quello di stabilirle su basi storiche, perché possano poi elevarsi alla cima più eccelsa del significato mistico » [105].
A questo proposito, egli osserva saggiamente che non dobbiamo allontanarci dal metodo di Cristo e degli Apostoli, i quali, sebbene l’Antico Testamento non sia ai loro occhi che la preparazione e quasi l’ombra del Nuovo Trattato e, per conseguenza, essi interpretino secondo il senso figurato un gran numero di passi, tuttavia non riducono ad immagini tutto il complesso del testo. A sostegno di questa tesi, Girolamo riporta spesso l’esempio dell’Apostolo Paolo, che, per citare un caso, « descrivendo le figure spirituali di Adamo ed Eva, non negava che esse erano state create, ma, improntando l’interpretazione mistica sulla base storica, scriveva: Per questo l’uomo abbandonerà... » [106].
I commentatori delle Sacre Scritture e i predicatori della parola di Dio, seguendo l’esempio di Cristo e degli Apostoli e le direttive tracciate da Loone XlII, « non devono trascurare le trasposizioni allegoriche od altre simili fatte dagli stessi Padri in alcuni passi, soprattutto se esse si allontanano dal senso letterale e sono sostenute dall’autorità di Padri di gran nome »; infine, prendendo per base il senso letterale, devono giungere, con misura e discrezione, ad interpretazioni più elevate; essi coglieranno con Girolamo la verità profonda del detto dell’Apostolo: «Tutta la Scrittura è ispirata dallo Spirito di Dio ed è utile per insegnare. per persuadere, per correggere, per formare [le menti] alla giustizia » [107], e il tesoro inesauribile delle Scritture fornirà loro un grande appoggio di fatti e di idee atti ad orientare, con forza di persuasione, verso la santità, la vita e i costumi dei fedeli.
Quanto a ciò che si riferisce all’esposizione e all’espressione, poiché quello che si richiede nei divulgatori dei misteri di Dio è la versione fedele del testo originale, Girolamo sostiene principalmente che è necessario attenersi innanzi tutto « all’esatta interpretazione » e che « il dovere del commentatore non è quello di esporre idee personali bensì quelle dell’autore che viene commentato » [108]; d’altra parte, egli aggiunge, « l’oratore sacro è esposto al grave pericolo, un giorno o l’altro, a causa di un’interpretazione errata, di fare del Vangelo di Dio il Vangelo dell’uomo » [109]. E, più avanti « nella spiegazione delle Sante Scritture non è da ricercare lo stile ornato e fiorito di retorica, ma il valore scientifico e la semplicità della verità » [110]. Uniformatosi a questa regola nella compilazione delle sue opere, Girolamo dichiara, nei Commentari, che il suo scopo non era quello di « ottenere un plauso » alle sue parole, ma « di far comprendere in esse il vero senso delle parole degli altri » [111]; l’esposizione della parola divina, egli dice, richiede uno stile che « non sappia di elucubrazioni, ma che riveli l’idea oggettiva, che ne tratti minutamente il significato, che chiarifichi i punti oscuri e che non si impigli in effetti fioriti di linguaggio » [112].
Sarebbe bene riportare a questo punto alcuni passi di Girolamo, che chiaramente dimostrano come egli avesse orrore dell’eloquenza propria dei retori, i quali nell’enfasi della declamazione e nell’eloquio vertiginoso delle parole vuote non hanno di mira che i vani applausi. «Non diventare — consiglia al prete Nepoziano — un declamatore e un inesauribile mulino di parole; ma procura di familiarizzarti col senso nascosto, e penetra a fondo i misteri del tuo Dio. Ampliare la forma espressiva e farsi valere per l’agilità dello stile agli occhi del volgo ignorante, è proprio degli stolti » [113]. «Tutti gli spiriti dotti al giorno d’oggi non si preoccupano di assimilare il nocciolo delle Scritture, ma di lusingare gli orecchi della folla coi fiori di retorica » [114]. «Non voglio parlare di coloro che, come io stesso un tempo, se giungono a contatto con le Sacre Scritture dopo aver praticato la letteratura profana e ricreato l’orecchio della folla con lo stile fiorito, ritengono che ogni loro parola sia la legge di Dio e non si degnano di vedere quello che hanno inteso dire i Profeti e gli Apostoli, ma adattano al loro punto di vista testimonianze che non vi si riferiscono affatto; come se fosse eloquenza, di grande valore, e non invece la peggiore che esista, quella di falsificare i testi e di allontanare abusivamente la Scrittura dal suo tracciato » [115]. « Infatti senza l’autorità delle Scritture questi chiacchieroni perderebbero ogni forza persuasiva, e non sembrerebbe più che essi rafforzino coi testi sacri la falsità delle loro dottrine » [116]. Ora, questa chiacchiera eloquente e questa verbosa ignoranza « non hanno nulla di incisivo, di vivo, di vitale, ma non sono che un tutto fiacco, sterile ed inconsistente, che produce solo umili piante ed erbe, ben presto avvizzite e giacenti al suolo »; al contrario, la dottrina del Vangelo, fatta di semplicità, « produce qualcosa di meglio di umili pianticelle » e, come il piccolissimo grano di senape, « si trasforma in albero, sì che gli uccelli del cielo... vengono a posarsi tra i suoi rami » [117].
Girolamo ricercava ovunque questa santa semplicità di linguaggio, che non esclude per altro uno splendore e una bellezza tutt’affatto naturali: « Che gli altri siano pure eloquenti e ricevano il plauso tanto desiderato, e declamino con voce enfatica e fiumi di parole; quanto a me, mi accontento di farmi capire e, trattando le Scritture, di imitare la loro stessa semplicità » [118]. Pertanto « l’esegesi cattolica, senza rinunciare al pregio di un bello stile deve occultarlo ed evitarlo per rivolgersi non a vane scuole di filosofi e a pochi discepoli, ma a tutto il genere umano » [119]. Se i giovani sacerdoti metteranno veramente a profitto questi consigli e queste norme, se i preti più anziani non li perderanno mai di vista, Noi siamo sicuri che il loro santo ministero sarà molto efficace alle anime dei fedeli.
Ci rimane, Venerabili Fratelli, da ricordare i « dolci frutti » che Girolamo ha colto « dall’amaro seme delle Sacre Lettere », nella speranza che il suo esempio infiammi lo spirito dei sacerdoti e dei fedeli affidati alle vostre cure, suscitando in loro il desiderio di conoscere e di partecipare anch’essi alla salutare virtù del Testo Sacro. Ma preferiamo che voi apprendiate tutte queste soavi delizie spirituali che pervadono l’animo del pio anacoreta direttamente, per così dire, dalla sua stessa bocca piuttosto che da Noi. Ascoltate dunque in quali termini egli parla di questa scienza sacra a Paolino, suo « confratello, compagno ed amico »: « Io ti chiedo, fratello carissimo: vivere in mezzo a questi misteri, meditarli, null’altro conoscere e null’altro sapere, non ti sembra che tutto ciò sia già il paradiso in terra? » [120]. « Dimmi un po’, — domanda Girolamo alla sua allieva Paola — che vi è di più santo di questo mistero? Che cosa più attraente di questo piacere? Quale alimento, quale miele più dolce di quello di conoscere i disegni di Dio, d’essere ammesso nel suo santuario, di penetrare il pensiero del Creatore e le parole del tuo Signore, che i dotti di questo mondo deridono e che sono piene di sapienza spirituale? Lasciamo che gli altri godano delle loro ricchezze, bevano in una coppa ornata di pietre preziose, indossino sete splendenti, si cibino di plausi della folla, senza che la varietà dei piaceri riesca ad esaurire i loro tesori: le nostre delizie consisteranno invece nel meditare giorno e notte sulla legge del Signore, nel bussare a una porta in attesa che s’apra, nel ricevere la mistica elemosina del pane della Trinità, nel camminare, guidati dal Signore, sui flutti della vita » [121]. E ancora a Paola, e a sua figlia Eustochio, Girolamo scrive nel suo Commentario sull’epistola agli Efesini: « Se qualcosa vi è, Paola ed Eustochio, che trattiene quaggiù nella saggezza e che in mezzo alle tribolazioni e ai turbini di questo mondo mantiene l’equilibrio dell’anima, io credo che questo siano innanzi tutto la meditazione e la scienza delle Scritture » [122]. Ed è ricorrendo ad esse, che egli, afflitto nell’intimo da profondi dolori e colpito nel corpo dalla malattia, poteva godere ancora della consolazione della pace e della gioia del cuore: questa gioia egli non si limitava a gustarla in una vana oziosità, ma il frutto della carità si trasformava in carità attiva al servizio della Chiesa di Dio, cui il Signore ha affidato la custodia della parola divina. In realtà ogni pagina delle Sante Lettere dei due Testamenti era per lui la glorificazione della Chiesa di Dio. Quasi tutte le donne celebri e virtuose, cui nell’Antico Testamento è tributato onore, non sono forse l’immagine di questa Sposa mistica di Cristo? Il sacerdozio e i sacrifici, i riti e le solennità, quasi tutti i fatti riportati nell’Antico Testamento non ne costituiscono forse l’ombra? E il fatto che si trova divinamente realizzato nella Chiesa un così gran numero di promesse dei Salmi e dei Profeti? Ed egli stesso, infine, non conosceva forse, per l’annuncio che ne avevano fatto Nostro Signore e gli Apostoli, gli insigni privilegi di questa Chiesa? E come è possibile dunque che la scienza di queste Scritture non abbia infiammato il cuore di Girolamo d’un amore ogni giorno più ardente per la Sposa di Cristo?
Noi già sappiamo, Venerabili Fratelli, quale profondo rispetto, quale amore entusiasta egli nutriva per la Chiesa Romana e per la Cattedra di San Pietro; sappiamo con quale vigore egli combatteva contro i nemici della Chiesa. Così scriveva, esprimendo il suo compiacimento ad Agostino, suo giovane compagno d’armi, che sosteneva le medesime battaglie e si rallegrava d’essersi come lui attirato l’ira degli eretici: « Evviva il tuo valore! Il mondo intero ha gli occhi su di te. I cattolici venerano e riconoscono in te il restauratore della fede dei primi tempi del Cristianesimo e, ìndice ancora più glorioso, tutti gli eretici ti maledicono e con te mi perseguitano d’uno stesso odio, per potere, dato che il loro gladio non ne ha la forza, di ucciderci con il desiderio » [123]. Questa testimonianza si trova egregiamente confermata nel « Sulpizio Severo » di Postumiano: «Una lotta continua e un duello ininterrotto contro i malvagi hanno concentrato su Girolamo l’odio dei perversi. In lui gli eretici odiano colui che non cessa di attaccarli, e i chierici colui che rimprovera la loro vita e le loro colpe. Ma tutti gli uomini virtuosi, senza eccezione alcuna, l’amano e l’ammirano » [124].
Quest’odio degli eretici e dei malvagi causò a Girolamo molte asperrime pene, soprattutto quando i Pelagiani irruppero nel monastero di Betlemme e lo saccheggiarono; ma egli sopportò di buon animo tutte le offese e tutti gli oltraggi e mai perdette il coraggio, come colui che non esita a morire in difesa della fede cristiana: « La mia gioia — egli scrive ad Apronio — è quella d’apprendere che i miei figli combattono per Cristo e che Colui, nel quale crediamo, rafforza in noi lo zelo ed il coraggio, affinché possiamo essere pronti a versare il nostro sangue per la Sua fede... Le persecuzioni degli eretici hanno rovinato da cima a fondo il nostro monastero quanto alle sue ricchezze materiali, ma la bontà di Cristo lo ha colmato di ricchezze spirituali. È meglio non aver pane da mangiare, che perdere la fede » [125]. E se non ha mai permesso all’errore di diffondersi impunemente, non ha impiegato minor zelo ad erigersi in termini energici contro i corrotti costumi, volendo, per quanto le sue forze glielo permettevano, « presentare » a Cristo « una Chiesa gloriosa, senza macchie, né rughe, né nulla di simile, ma santa e immacolata » [126].
Quale vigore nei rimproveri che Girolamo rivolge a coloro che profanano con una vita colpevole la dignità sacerdotale! Con quale eloquenza egli investe i costumi pagani che pervadono in gran parte la stessa città di Roma! Per arginare a qualunque costo questa invasione di tutti i vizi e di tutte le colpe, egli oppone l’eccellenza e la bontà delle virtù cristiane, giustamente convinto che contro il male nulla vale di più dell’amore delle cose purissime; egli richiede insistentemente per la gioventù un’educazione informata a senso religioso e ad onestà; esorta con severi consigli gli sposi a condurre una vita pura e santa; suscita nelle anime più delicate il culto della verginità; non trova abbastanza elogi per la severa ma dolce austerità della vita dello spirito; richiama, con tutte le sue forze, il primo precetto della religione cristiana — il comandamento della carità unita al lavoro — la cui osservanza dovrebbe sottrarre la società umana ai turbamenti e restituirle la tranquillità dell’ordine.
Ricordiamo questa bella frase, ch’egli rivolgeva a San Paolino a proposito della carità: « Il vero tempio di Cristo è l’anima fedele: ornalo, questo santuario; abbelliscilo; deponi in esso le tue offerte e ricevi Cristo. A che scopo rivestire le pareti di pietre preziose, se Cristo muore di fame nella persona di un povero » [127]. Quanto al dovere del lavoro, egli lo ricorda a tutti con un tale ardore, nei suoi scritti e più ancora negli esempi di tutta la sua vita, che Postumiano, dopo un soggiorno di sei mesi a Betlemme insieme a Girolamo, gli ha reso questa testimonianza nel « Sulpizio Severo »: « Lo si trova senza posa tutto occupato nella lettura, tutto immerso nei libri: né il giorno né la notte riposa, ma sempre legge o scrive » [128].
D’altra parte, il suo ardente amore per la Chiesa si rileva dai suoi Commentari, dove egli non tralascia nessuna occasione per celebrare la Sposa di Cristo. Citiamo, per esempio, questo passo del Commentario del profeta Aggeo: « Accorse il fior fiore di tutte le nazioni e la gloria ha riempito la casa del Signore, cioè la Chiesa di Dio vivente, colonna e fondamento della verità... Questi metalli preziosi donano più splendore alla Chiesa del Salvatore di quanto non ne donassero un tempo alla sinagoga; di queste vive pietre è costruita la casa di Cristo, ed essa si corona d’una pace eterna » [129]. E in un altro passo commentando Michea, dice: «Venite, saliamo alla casa del Signore: è necessario salire se si vuol giungere fino a Cristo e alla casa del Dio di Giacobbe, la Chiesa, casa di Dio, colonna e fondamento della verità » [130].
Nella prefazione al Commentario di Matteo, leggiamo: « La Chiesa è stata costruita su una pietra da una parola del Signore; è questa che il Re ha fatto introdurre nella sua camera ed è a lei che attraverso l’apertura segreta ha teso la mano » [131].
Come risulta da questi ultimi passi che abbiamo citato, così più volte il nostro Dottore esalta l’unione intima del Signore Gesù con la Chiesa. Poiché non è possibile separare la testa dal suo corpo mistico, l’amore per la Chiesa porta necessariamente con sé l’amore per Cristo, che deve essere considerato il frutto principale e dolcissimo della scienza delle Scritture. Girolamo, infatti, era a tal punto convinto che questa conoscenza del testo sacro sia la via esatta che conduce alla conoscenza e all’amore di nostro Signore, che non esitava ad affermare: « Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo stesso » [132]. Con il medesimo intendimento scrive a Santa Paola: « Come si potrebbe vivere senza la scienza delle Scritture, attraverso le quali s’impara a conoscere Cristo stesso, che è la vita dei credenti? » [133]. È verso Cristo infatti che convergono, come al loro punto centrale, tutte le pagine dei due Testamenti; e nel commento al passo dell’Apocalisse, dove si trova la questione del fiume e dell’albero della vita, Girolamo in particolare scrive: «Non vi è che un fiume che sgorga dal trono di Dio, ed è la grazia dello Spirito Santo, e questa grazia dello Spirito Santo è racchiusa nelle sante Scritture, cioè in questo fiume delle Scritture. Il quale fiume tuttavia scorre tra due rive, che sono l’Antico e il Nuovo Testamento, e su ogni lato sorge un albero, che è Cristo stesso » [134].
Nulla di strano, dunque, se Girolamo nelle sue pie meditazioni era solito riferire a Cristo tutto quello che leggeva nei Libri santi: «Quando io leggo il Vangelo e mi trovo di fronte a testimonianze sulla legge e sui profeti, io non penso che a Cristo; se ho studiato Mosè, se ho studiato i profeti è stato solo per comprendere quello che essi dicevano di Cristo. Quando un giorno io sarò giunto dinnanzi allo splendore di Cristo, quando la Sua fulgida luce, come quella del sole abbagliante, splenderà ai miei occhi, io non potrò più vedere il lume di una lampada. Se accenderai una lampada in pieno giorno, potrà essa far luce? Quando splende il sole, la luce di questa lampada svanisce: così, alla presenza di Cristo, la legge e i profeti scompaiono. Nulla io voglio togliere alla gloria della legge e dei profeti; al contrario li lodo quali annunziatori di Cristo. Se mi accingo alla lettura della legge e dei profeti, il mio scopo non è quello di fermarmi ad essi, ma di giungere, attraverso essi, fino a Cristo » [135].
Così noi lo vediamo elevarsi meravigliosamente, per mezzo dei Commentari alle Scritture, all’amore e alla conoscenza di Gesù nostro Signore, e trovarvi la perla preziosa di cui parla il Vangelo: «Non vi è tra tutte che una sola perla preziosa, ed è la conoscenza del Salvatore, il mistero della sua passione e l’arcano segreto della sua risurrezione » [136].
L’amore ardente per Cristo lo portava povero ed umile insieme a Lui, a liberarsi completamente da ogni legame di preoccupazioni terrestri, a non cercare che Cristo, a penetrare nel suo spirito, a vivere con Lui nella più stretta unione, a foggiare la propria vita secondo l’immagine di Cristo sofferente, a non avere desideri più intensi che soffrire con Cristo e per Cristo. Perciò, al momento di imbarcarsi, allorché, essendo morto Damaso, perfidi nemici con le loro vessazioni lo fecero allontanare da Roma, così scriveva: « Alcuni possono considerarmi un criminale, cacciato sotto il peso di tutte le sue colpe, ma questo non è ancor nulla in confronto dei miei peccati; tu puoi tuttavia credere nel tuo intimo a una virtù dei peccatori... Io rendo grazie a Dio di meritare l’odio del mondo. Quale parte di sofferenza ho patito io, soldato della Croce? La calunnia mi ha coperto del marchio di un delitto: ma io so che con la cattiva come con la buona fama si arriva al regno dei cieli » [137].
Così esortava la pietosa vergine Eustochio a sopportare coraggiosamente, per amore di Cristo, le pene della vita presente: «Grande è la sofferenza, ma grande è la ricompensa per chi imita i Martiri, gli Apostoli, per chi imita Cristo. Tutte queste pene che vengo enumerando sembrerebbero intollerabili a chi non ama Cristo; ma, al contrario, chi considera tutta la pompa della vita terrena come un fango immondo, per cui tutto è vano sotto la luce del sole, chi non vuole arricchirsi che di Cristo, chi si unisce alla morte e alla risurrezione del suo Signore e chi uccide la carne con tutti i suoi vizi e tutte le sue brame, costui potrà liberamente gridare: Chi mi potrà separare dalla carità di Cristo? » [138].
Girolamo, dunque, traeva abbondantissimi frutti dalla lettura dei Libri santi: da essi egli attingeva quella luce interiore, che lo faceva sempre più avanzare nella conoscenza e nell’amore di Cristo; da essi quello spirito di preghiera, di cui così bene ha detto nei suoi scritti; da essi infine acquistò quella mirabile intima comunione con Cristo, che con le sue dolcezze lo incitò a tendere senza tregua, attraverso l’aspro sentiero della Croce, alla conquista della palma della vittoria. Così lo slancio del suo cuore lo portava continuamente verso la santissima Eucaristia, « poiché nessuno è più ricco di colui che porta il corpo del Signore in un cestello di vimini e il suo Sangue in un’ampolla » [139]; uguale venerazione nutriva Girolamo per la santa Vergine, di cui difende con ogni forza la perpetua verginità; e la Madre di Dio, ideale di tutte le virtù, era il modello che egli proponeva agli sposi di Cristo perché la imitassero [140].
Nessuno si stupirà dunque se i luoghi della Palestina, che avevano santificato il nostro Redentore e la sua santissima Madre, hanno esercitato un fascino e un’attrattiva così grandi su Girolamo. Quali fossero i suoi sentimenti su questo punto, si potrà facilmente indovinare da ciò che Paola ed Eustochio, sue discepole, scrivevano da Betlemme a Marcella: « Con quali parole noi possiamo darti un’idea della grotta in cui nacque il divin Salvatore? Della culla che udì i suoi vagiti infantili? È più degno il silenzio che le nostre povere parole... Non verrà dunque il giorno in cui ci sarà dato di entrare nella grotta del Salvatore, di piangere sulla tomba del divino Maestro accanto a una sorella, a una madre? Di baciare il legno della Croce, e sul Monte degli Ulivi di seguire in spirito, ardenti di desiderio, Cristo nella sua Ascensione? »[141].
Lontano da Roma, Girolamo conduceva una vita di mortificazione per il suo corpo, ma il richiamo dei sacri ricordi infondeva nella sua anima una tale dolcezza da scrivere: « Se Roma possedesse quello che possiede Betlemme, che è tuttavia più umile della città romana! » [142]. Il voto del santissimo esegeta s’è realizzato in modo diverso da quello da lui inteso, e Noi, con tutti i cittadini di Roma, abbiamo motivo di rallegrarcene. Infatti i resti del Massimo Dottore, deposti in quella grotta che per tanto tempo aveva abitata, per cui la celebre città di Davide si gloriava un tempo di conservarli, Roma oggi ha la fortuna di custodirli nella basilica di Santa Maria Maggiore, ove riposano accanto alla Culla stessa del Signore.
Si è spenta quella voce, la cui eco dal deserto percorreva un tempo il mondo intero; ma attraverso i suoi scritti, « che splendono su tutto l’universo come fiamme divine » [143], Girolamo parla ancora. Egli proclama l’eccellenza, l’integrità e la veracità storica delle Scritture, e i dolci frutti che la loro lettura e la loro meditazione offrono. Proclama per tutti i figli della Chiesa la necessità di ritornare a una vita degna del nome cristiano, e di guardarsi dal contagio dei costumi pagani, che nella nostra epoca sembrano essersi pressoché ristabiliti. Proclama che la Cattedra di Pietro, mercé soprattutto la pietà filiale e lo zelo degli Italiani, cui il Cielo ha dato il privilegio di possederla entro i confini della loro patria, deve godere dell’onore e della libertà assolutamente indispensabili per la dignità e l’esercizio stesso della carica apostolica.
Proclama, per le nazioni cristiane che hanno avuto la sventura di staccarsi dalla Chiesa, il dovere di ritornare dalla loro Madre, ove riposa tutta la speranza della salute eterna. Voglia Dio che questo appello sia inteso soprattutto dalle Chiese Orientali, che ormai da troppo tempo sono ostili alla Cattedra di Pietro. Quando viveva in quelle regioni ed aveva per maestri Gregorio Nazianzeno e Didimo d’Alessandria, Girolamo sintetizzava in questa formula divenuta classica la dottrina dei popoli orientali a quell’epoca: « Chiunque non si rifugia nell’arca di Noè, sarà travolto dai flutti del diluvio » [144]. Se Dio non arresta oggi questo flagello, non minaccia esso di distruggere tutte le istituzioni umane? Che più rimane, se viene soppresso Dio, autore e conservatore di tutte le cose? Che cosa può continuare ad esistere, una volta staccata da Cristo, fonte di vita? Ma Colui che un tempo, all’appello dei suoi discepoli, calmò il mare in tempesta, può ancora rendere alla società umana travolta il preziosissimo beneficio della pace.
Possa Girolamo attirare questa grazia sulla Chiesa di Dio, che egli ha con tanto ardore amata e con tanto coraggio difesa contro ogni assalto dei nemici; possa il suo patrocinio ottenere per noi che tutte le discordie siano sedate secondo il desiderio di Gesù Cristo, e « che vi sia un solo gregge sotto un solo pastore ». Comunicate senza indugio, Venerabili Fratelli, al vostro clero e ai vostri fedeli, le istruzioni che vi abbiamo dato in occasione del quindicesimo centenario della morte del Massimo Dottore. Noi vorremmo che tutti, seguendo l’esempio e sotto il patrocinio di Girolamo, non soltanto rimanessero fedeli alla dottrina cattolica sotto l’ispirazione divina delle Sacre Scritture, e ne prendessero la difesa, ma che osservassero anche con scrupolosa cura le prescrizioni dell’Enciclica Providentissimus Deus e della presente Lettera. In attesa, formuliamo l’augurio che tutti i figli della Chiesa si lascino penetrare e fortificare dalla dolcezza delle Sante Lettere, per arrivare a una conoscenza perfetta di Gesù Cristo.
Come pegno di tale voto, e a testimonianza della Nostra paterna benevolenza, Noi impartiamo, nella somma grazia del Signore, a voi, a tutto il clero e a tutti i fedeli che vi sono affidati, l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 settembre 1920, anno settimo del Nostro Pontificato.
BENEDICTUS PP. XV
[1] Conc. Trid., s. V. decr. de reform. c. 1.
[2] Sulp. Sev., Dial. 1, 7.
[3] Cass., De inc. 7, 26.
[4] S. Prosper., Carmen de ingratis, v. 57.
[5] De viris ill., 135.
[6] Ep. 82, 2, 2.
[7] Ep. 15, 1, 1 ; 16, 2, 1.
[8] In Abd. Praef.
[9] In Matth. 13, 44.
[10] Ep. 22, 30, 1.
[11] Ep. 84, 3, 1.
[12] Ep. 125, 12.
[13] Ep. 123, 9 al. 10; Ep. 127, 7, 1.
[14] Ep. 127, 7, 1 s.
[15] Ep. 36, 1; Ep. 32, 1.
[16] Ep. 45, 2; 126, 3; 127, 7.
[17] Ep. 84, 3, 1 s.
[18] Ad Domnionem et Rogatianum in 1.Paral. Praef.
[19] Conc. Vat. s. III, Const. de Fide Cath., cap. 2.
[20] Tract. de Ps. 88.
[21] In Matth. 13, 44; Tract. de Ps. 77.
[22] In Matth. 13, 45 ss.
[23] Quaest. in Gen., Praef.
[24] In Agg. 2, 1 ss.; cf. in Gal. 2, 10 etc.
[25] Adv. Helv. 19.
[26] Adv. Iovin. 1.4.
[27] Ep. 49, al.48, 14, 1.
[28] In Ier. 9, 12 ss.
[29] Ep. 78, 30, al. 28, mansio.
[30] Ep. 27, 1, 1 s.
[31] In Ex. 1, 15 ss.
[32] In Mich. 2, 11 s.; 3, 5 ss.
[33] In Mich. 4, 1 ss.
[34] In Ier. 31, 35 ss.
[35] In Nah. 1, 9.
[36] Ep.57, 7, 4.
[37] Ep. 82, 7, 2.
[38] Ep. 72, 2, 2.
[39] Ep. 18, 7, 4; cf. Ep. 46, 6, 2.
[40] Ep. 36, 11, 2.
[41] Ep. 57, 9, 1.
[42] S. Aug. ad S. Hierom., inter epist. S. Hier. 116, 3.
[43] Litt. Enc. Providentissinus Deus.
[44] In Ier. 23, 15 ss.; in Matth. 14, 8 ; adv. Helv. 4.
[45] In Philem. 4.
[46] S. Aug., Contra Faustum 26, 3 s. 6 s.
[47] Ioh. 19, 35.
[48] In Matth. Prol.
[49] Ep. 78, 1, 1 ; cf. in Marc. 1, 13- 31.
[50] S. Aug., Contra Faustum 26, 8.
[51] Cf. Matth. 12, 3, 39-42; Luc. 17, 26-29, 32 etc.
[52] Matth. 5, 18.
[53] Ioh. 10, 35.
[54] Matth. 5, 19.
[55] Luc. 24, 45 s.
[56] Ep. 130, 20.
[57] Ep. 58, 9, 2; 11, 2.
[58] Matth. 13, 44.
[59] S. Aug. Conf. 3, 5; cf. 8, 12.
[60] Ep. 22, 30, 2.
[61] In Mich. 1, 10, 15.
[62] In Gal. 5, 19 8 ss.
[63] Ep. 108, 26, 2.
[64] Ad Domnionem et Rogatianum in 1.Par. Praef.
[65] Ep. 63, 2.
[66] Ep. 15, 1.2.4.
[67] Ep. 16, 2, 2.
[68] In Dan. 3, 37.
[69] Adv. Vigil. 6.
[70] Dial. c. Pelag., Prolog. 2.
[71] Contra Ruf. 3, 43.
[72] In Mich. 1, 10 ss.
[73] In Is. 1.6 cap. 16, 1-5.
[74] In Tit. 3, 9.
[75] In Eph. 4, 31.
[76] Ep. 107, 9, 12.
[77] Ep. 22, 17, 2; cf. ib. 29, 2.
[78] Ep. 108, 26.
[79] Ep. 127, 7.
[80] Ps. 50, 8.
[81] Imit. Chr. 4, 11.4.
[82] Imit. Chr. 4, 11.4.
[83] Ep. 125, 7, 3;11, 1.
[84] Ep. 52, 7, 1.
[85] Ep. 53, 3 ss.
[86] Ep. 27, 1, 2.
[87] Mal. 2.7.
[88] Pius X in Litt. Ap. Vinea electa, 7 Maii 1909.
[89] Cf. 2 Tim. 3, 17.
[90] Tract. de Ps. 147.
[91] Rom. 2, 19 s.
[92] Thren. 4, 4.
[93] Ier. 12, 11.
[94] Ep. 52, 8, 1.
[95] In Amos 3, 3 ss.
[96] In Zach. 9, 15 s.
[97] Ep. 29, 1, 3.
[98] In Matth. 25, 13.
[99] Cf. in Ez. 38, 1 ss; 41, 23 ss.; 42, 13 s.; in Marc. 1, 13-31; Ep. 129, 6, 1 etc.
[100] In Hab. 3, 14 ss.
[101] In Marc. 9, 1-7; cf. in Ez. 40, 24-27.
[102] In Eccle. 12, 9 s.
[103] Ep. 58, 9, 1.
[104] In Eccle. 2, 24 ss.
[105] In Amos 9, 6.
[106] In Is. 6, 1-7.
[107] 2 Tim. 3, 16.
[108] Ep. 49 al. 48, 17, 7.
[109] In Gal. 1, 11 ss.
[110] In Amos, Praef. in 1.3.
[111] In Gal., Praef. in 1.3.
[112] Ep. 36, 14, 2; cf. Ep. 140, 1, 2.
[113] Ep. 52, 8, 1.
[114] Dial. c. Lucif. 11.
[115] Ep. 53, 7, 2.
[116] In Tit. 1, 10 s.
[117] In Matth. 13, 32.
[118] Ep. 36, 14, 2.
[119] Ep. 48 al. 49, 4, 3.
[120] Ep. 53, 10, 1.
[121] Ep. 30, 13.
[122] In Eph., Prol.
[123] Ep. 141, 2; cf. Ep. 134, 1.
[124] Postumianus apud Sulp. Sev., Dial. 1, 9.
[125] Ep. 139.
[126] Eph. 5, 27.
[127] Ep. 58, 7, 1.
[128] Postumianus apud Sulp. Sev., Dial. 1, 9.
[129] In Agg. 2, 1 ss.
[130] In Mich. 4, 1 ss.
[131] In Matth., Prol.
[132] In Is., Prol.; cf. Tract. de Ps. 77.
[133] Ep. 30, 7.
[134] Tract. de Ps. 1.
[135] Tract. in Marc. 9, 1-7.
[136] In Matth. 13, 45 s.
[137] Ep. 45, 1, 6.
[138] Ep. 22, 38 s.
[139] Ep. 125, 20, 4.
[140] Cf. Ep. 22, 38, 3.
[141] Ep. 46, 11, 13.
[142] Ep. 54, 13, 6.
[143] Cassian., De incarn. 7, 26.
[144] Ep. 15, 2, 1.
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