ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XV
AI PARROCI E AI PREDICATORI QUARESIMALISTI
DI ROMA
Lunedì, 16 febbraio 1920
Ora fa un anno, in pari circostanza, Noi chiedemmo al Dottore delle genti con quali parole avremmo potuto salutare efficacemente i predicatori della Quaresima adunati alla Nostra presenza; e San Paolo allora Ci suggerì di salutarli col nome espressivo di « uomini di Dio »: « tu autem, homo Dei » [1]. Lo stesso saluto potremmo ora volgere a voi, o dilettissimi figli, che vi preparate a bandire la divina parola in Roma, nella Quaresima ormai imminente. Ma, se il nome che meglio si addice ai predicatori giova a dimostrare il rispetto che loro è dovuto e deve persuadere ad essi le virtù necessarie all’esercizio del loro eccelso ministero, sembra a Noi, che il doppio scopo sarebbe anche più facilmente raggiunto, se si avesse adeguato concetto dell’opera che è commessa ai predicatori. All’amore delle persone e delle cose è necessario vadano innanzi la conoscenza e la stima delle une e delle altre: « nil volitum quin praecognitum »; e perché non dire che, quanto meglio radicata è la stima delle persone e delle cose, tanto più giustificato e sincero ne deve esser l’amore? Perciò un’altra volta Ci siamo rivolti a San Paolo ed abbiamo chiesto a lui una parola capace di esprimere in maniera comprensiva l’importanza dell’opera affidata ai predicatori. E il Dottore delle genti ha fatto subito risuonare all’anima Nostra l’eco della parola da lui indirizzata al suo discepolo Timoteo: « opus fac evangelistae » [2].
Certamente è a tutti palese l’importante significato di questa parola, la quale viene a rinnovare, e ad applicare ai predicatori, quell’antico precetto: « age quod agis », cui è connesso il ricordo della necessità di far bene ciò che si deve compiere. Ma, affinché a niuno apparisca superflua la parola dell’Apostolo e niuno dica che solo equivale ad inutile ripetizione, Noi vi invitiamo, o dilettissimi figli, a riflettere che San Paolo, nello scrivere a Timoteo: « opus fac evangelistae », supponeva che il suo discepolo conoscesse e ciò che vale « per sé » l’ufficio di evangelista, e ciò che un tale ufficio richiede in chi deve adempierlo. Anche Noi pertanto facciano Nostra la parola di San Paolo: « opus fac evangelistae », e, mentre la indirizziamo a ciascuno dei predicatori dell’imminente Quaresima, nel senso in cui il Dottore delle genti la indirizzava al suo fido Timoteo, giudichiamo non inopportuno ricordare prima il carattere proprio, o la natura, dell’ufficio dell’evangelista, e poi gli obblighi o i doveri che un tale ufficio importa. Potremo così sperare che in nessuno dei predicatori, destinati ad annunziare la divina parola ai fedeli di Roma, nella imminente Quaresima, siano per far difetto le due cose che l’Apostolo supponeva nell’evangelista, quando scriveva al discepolo: « opus fac evangelistae ». E Ci affida anche la speranza che, come lo studio del nome proprio dei predicatori: « tu autem, homo Dei », ha potuto nel passato anno determinare la stima e l’amore di essi in mezzo al popolo, così questa medesima stima e questo medesimo amore si accresceranno ognor più in questo anno, mercé lo studio di ciò che è in se stessa l’opera del predicatore: « opus fac evangelistae ».
Il divin Salvatore, nei tre anni della sua vita pubblica, diede ai discepoli un insegnamento completo intorno a ciò che i suoi seguaci avrebbero dovuto credere ed operare. Quell’insegnamento però, lungi dall’essere ristretto alle poche persone che allora seguivano Gesù, era destinato a tutte le genti e a tutte le età future. Il divino Maestro doveva quindi determinare anche il modo di farne giungere l’eco a quanti sarebbero stati gli abitatori della terra, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, dopo che Egli avesse sottratto alla terra il conforto della sua presenza visibile. E il modo voluto da Gesù fu la missione data agli Apostoli e, nella persona di essi, a tutti i predicatori delle future età, di annunziare il Vangelo a tutti gli uomini, ammaestrandoli ad osservare quanto Egli aveva prescritto: « euntes in mundum universum, praedicate evangelium omni creaturae [3]… docentes eos servare omnia, quaecumque mandavi vobis » [4]. Di qui segue che gli Apostoli non sono stati, e i predicatori anche dell’età nostra altro non devono essere, che l’eco della voce di Gesù Cristo. Ma chi potrebbe dire l’eccellenza dell’opera che, in tal guisa, vengono a compiere i predicatori?
Chi riproduce l’altrui voce sembra ravvicinare persona lontana, e chi di persona assente prosegue l’opera sembra colmare il vuoto lasciato dalla dipartita di quella persona. È poi facile intendere che l’eco dell’altrui voce merita di essere tanto più apprezzata quanto più eccellente fu la persona che prima parlò: e del pari, quanto più illustre è stata la persona di cui si prosegue l’opera, la continuazione di questa deve aversi in tanto maggior pregio. Ora ai predicatori è commesso di ripetere gli insegnamenti non di un uomo, ma di un Dio. Come il divin Salvatore additò agli uomini la via per giungere a salvezza, anche i predicatori devono indirizzare e guidare gli uomini nello stesso cammino. L’opera loro si dice di « evangelisti », appunto perché annunzia la buona novella della redenzione compiuta da Gesù Cristo, e addita il facile modo di goderne i frutti. Quando perciò si intima al predicatore di fare opera di evangelista: « opus fac evangelistae », gli si viene quasi a dire di farsi eco della voce di Gesù Cristo o, se meglio piace, di proseguire l’opera del suo divino insegnamento.
Non abbiamo mestieri di avvertire l’enorme differenza che corre fra l’opera, autorevole per se stessa perché divina, dell’incarnata Sapienza e l’opera ministeriale dei predicatori: è a tutti noto che questa non ha valore se non in virtù di quella. Ma non è men vero che l’una e l’altra traggono seco l’annunzio della stessa dottrina; non è men vero che l’una e l’altra mirano allo stesso fine. Gesù Cristo non ha detto soltanto che la vita eterna sarà data a chi avrà conosciuto il vero Dio e il Figliuolo mandato da Dio [5], ma ha detto altresì che « sarà salvo chi avrà creduto alla parola degli evangelisti »: « praedicate evangelium omni creaturae; qui crediderit salvus erit ». Ecco come l’opera degli evangelisti è associata a quella di Dio; ecco come nell’ordine attuale di provvidenza, la salute eterna non è altrimenti possibile agli uomini che per mezzo della predicazione.
E valga il vero, dopo che il divin Salvatore ebbe posto termine al suo insegnamento pubblico, restò articolo di fede che « chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo. Ma come invocheranno uno in cui non hanno creduto? E come crederanno in uno di cui non hanno sentito parlare? Come poi ne sentiranno parlare senza chi predichi? »: « quicumque invocaverit nomen Domnini salvus erit. Quomodo ergo invocabunt, in quem non crediderunt? aut quomodo credent ei, quem non audierunt? quomodo autem audient sine praedicante? » [6].
Sono due pertanto i titoli della gloria che compete all’evangelista: quello di continuare l’opera del Messia e quello di far cosa che, secondo l’ordinario corso dalla divina Provvidenza, è indispensabilmente connessa alla salvezza degli uomini. Da questi due titoli di gloria risulta così esaltato l’ufficio dell’evangelista, che, intorno alla natura o al carattere di esso, crediamo non possa pretendere di più chi ha inteso la Nostra parola rivolta ai quaresimalisti di Roma: « opus fac evangelistae ». Raccoglietela voi, o dilettissimi figli, ai quali è stata rivolta, e mostrate di apprendere tutta l’eccellenza del suo significato. Se infatti per compiere bene un ufficio è necessario anzitutto di apprezzarne a dovere l’importanza, non potranno non essere buoni evangelisti coloro i quali sapranno di essere continuatori dell’opera di un Dio, cooperatori alla eterna salvezza del prossimo.
Questa stima, o dilettissimi figli, voi dovrete avere non alle vostre persone, ma all’ufficio a voi affidato. Epperò non solo niuna invidia, niuna gelosia dovrete avere verso coloro che avranno comune con voi l’opera dell’evangelista, ma, mentre procurerete di renderla fruttuosa per conto vostro, dovrete pure augurarla feconda di vantaggi mercé lo zelo altrui.
Risuona ancora l’eco della parola che, al cadere dell’anno passato, Noi abbiamo indirizzata a tutti i Vescovi intorno all’importante argomento della propagazione della fede cattolica in tutto il mondo. I missionari che si recano in lontane regioni per predicare il Vangelo a coloro che brancolano ancora fra le tenebre dell’ignoranza o siedono nell’ombra di morte, compiono opera che deve dirsi: « di evangelisti » quasi per antonomasia. Noi vorremmo perciò che i predicatori della prossima Quaresima in Roma parlassero almeno una volta, durante il corso della loro predicazione, della ricordata Nostra Enciclica, sia per inculcare l’obbligo che hanno tutti i fedeli di favorire l’opera delle sante missioni, sia per rendere pubblico omaggio alla sublimità dell’officio dell’evangelista. Una certa modestia, più o meno giustificata, avrebbe potuto far morire sul vostro labbro, o dilettissimi figli, l’encomio dovuto all’evangelista, perché avreste potuto non volere la implicita lode che ne sarebbe venuta all’opera vostra. Ma se, togliendo dalla Nostra Enciclica l’occasione a parlare, voi additerete all’ammirazione dei vostri uditori le fatiche e lo zelo dei missionari, compirete un’opera di giustizia, e insieme presterete un omaggio alla verità. E non sarà atto di giustizia il rendere maggior lode a chi ha merito maggiore? non sarà culto di verità il dichiarare ognor meglio alla luce degli esempi, che cosa intendeva San Paolo quando scriveva al discepolo, e che cosa intendiamo Noi quando diciamo a ciascuno dei predicatori della Quaresima: « opus fac evangelistae »?
Vi ha però anche un altro modo di attestare efficacemente il pregio in cui dev’essere tenuto l’ufficio dell’evangelista. Questo modo dipende da coloro ai quali un tale ufficio è commesso, e Noi lo ricordiamo ora non per insegnare cose nuove, ma per raffermare voi, o dilettissimi, in quei giudizi e in quei propositi che già sappiamo essere vostri.
Abbiamo detto poc’anzi che San Paolo, nello scrivere a Timoteo: « opus fac evangelistae », supponeva che il suo discepolo conoscesse non solo ciò che vale « per sé » l’ufficio dell’evangelista, ma anche ciò che un tale ufficio richiede in chi lo deve adempiere. E Noi, alla nostra volta, nell’indirizzare la parola dell’Apostolo ai predicatori della Quaresima, non potevamo punto supporre che essi ignorassero gli obblighi o i doveri che l’« opus evangelistae » richiede. Fate dunque, o carissimi, che non apparisca mai esserci Noi ingannati nel respingere con forza una siffatta supposizione.
Ci piace infatti immaginare che chi sa di essere continuatore dell’opera del Messia nulla dica, nulla faccia, nulla tolleri che alla missione del Messia non apparisca perfettamente conforme. È superfluo il dire che l’evangelista deve annunziare il Vangelo di Gesù Cristo, perché, se ciò non facesse, non meriterebbe nemmeno il nome di « evangelista ». Ma non è forse inutile aggiungere che l’evangelista deve annunziare « solo » il Vangelo di Gesù Cristo. I predicatori della Quaresima si astengano perciò non solamente dal parlare di sé, ove una stretta necessità non lo richiegga, affinché non si possa dire che « predicano se stessi », ma si astengano altresì dal portare sul pulpito argomenti che non appariscano evidentemente connessi all’insegnamento del santo Vangelo.
Il primo Vescovo di Madrid — quel Monsignor Martinez Izquierdo, che, nella Domenica delle Palme del 1886, cadde martire del suo dovere sotto la mano sacrilega di un sacerdote — aveva poco prima ordinato che nella sua diocesi nessun oratore chiudesse l’esordio delle prediche, senza indicare esplicitamente a quale articolo del catechismo si riferisse la tesi che prenderebbe a dimostrare. E Noi ricordiamo che l’unica volta, in cui osammo predicare nella capitale della Spagna nell’idioma del paese, fu in occasione della prima Messa di un sacerdote novello, e anche Noi citammo l’articolo del catechismo, che prescrive la venerazione ed il rispetto dovuto al sacerdote cattolico. Evidentemente il precetto dello zelantissimo primo Vescovo di Madrid era determinato dal desiderio di impedire l’abuso, allora troppo comune in Ispagna, che i predicatori trattassero argomenti alieni dall’ordine soprannaturale. Ah! quell’abuso ha varcato anche le nostre frontiere, e temiamo che talora abbia violato persino il rispetto dovuto alla Città santa. Oh! come sarebbe dunque opportuno che i quaresimalisti di Roma si obbligassero a predicare « tutto e solo » il santo Vangelo! E, poiché ciò che si dimostra insegnamento del Vangelo rimane meglio scolpito nella mente degli ascoltatori, farebbero cosa utilissima i predicatori di Roma se prendessero l’abitudine di additare il vincolo di relazione che le loro prediche devono sempre avere col santo Vangelo. Collocherebbero così sopra base granitica il loro insegnamento; perfezionerebbero il metodo che abbiamo lodato nei predicatori della Spagna, renderebbero agli uditori più facile l’intelligenza delle loro lezioni, e, ciò che più monta, apparirebbero quali esser devono coloro ai quali è dato il nome di « evangelisti ».
Imperocché quanto è agevole comprendere, anche per la semplice considerazione del nome, che gli evangelisti devono predicare il Vangelo, altrettanto sarebbe assurdo il supporre che l’evangelista dovesse aggiungere alcunché al Vangelo, come se l’insegnamento di Gesù Cristo non fosse stato perfetto. E quando escludiamo gli argomenti non necessariamente connessi col santo Vangelo, intendiamo di escludere, quasi a più forte ragione, le citazioni profane, non essendo tollerabile il supporre che queste possano accrescere forza o valore dimostrativo alle lezioni evangeliche. L’evangelista Noi abbiamo detto essere « eco della voce di Gesù Cristo »: oh! quanto si avvilirebbe, se si facesse eco della voce dei filosofi gentili o dei poeti pagani!
Né si dica che ragioni di polemica possono talora indurre il predicatore ad usare un linguaggio diverso dall’esposizione del Vangelo. Non si dica che egli deve talora tenere in conto il gusto depravato degli uditori, per riuscir meglio nel suo intento di persuaderli della verità evangelica. Imperocché quando fu che l’Apostolo scrisse a Timoteo: « opus fac evangelistae »? Proprio allora quando gli avea predetto che sarebbe venuto un tempo in cui gli uomini non avrebbero potuto patire la sana dottrina, ma secondo le proprie passioni, per prurito di udire, avrebbero moltiplicati a se stessi i maestri: « erit enim tempus cum sanam doctrinam non sustinebunt, sed ad sua desideria coacervabunt sibi magistros, prurientes auribus ». L’Apostolo era andato anche più innanzi, predicendo a Timoteo che gli uditori si sarebbero ritirati dall’ascoltare la verità e si sarebbero rivolti alle favole: « Et a veritate quidem auditum avertent, ad fabulas autem convertentur ». Ma che perciò? Egli soggiunse tosto: «Tu vero vigila », quasi sottintendendo: « A te ciò non deve importare; tu devi solo pensare a compiere il tuo ufficio ». E, volendo tutto esprimere con una sola parola, allora fu che disse: «Tu fa l’ufficio di predicatore del Vangelo »: « opus fac evangelistae ». Ecco come la parola di San Paolo, studiata nel contesto della seconda epistola a Timoteo, insegna che il predicatore non deve allontanarsi dal Vangelo nemmeno quando i suoi uditori abbiano un gusto così depravato da non patire la sana dottrina: « cum sanam doctrinam non sustinebunt ». Ai dì nostri si potrebbe forse aggiungere con San Paolo che numerosi uditori « ad fabulas convertuntur ». Ma anche per quest’ora nefasta bisogna ripetere con lo stesso Apostolo: «Tu vero vigila… opus fac evangelistae ».
È ciò che ripetiamo un’altra volta a voi, o dilettissimi figli, per persuadervi ognor meglio che né condizioni di tempi, né circostanze di luoghi, né esigenze di persone autorizzeranno mai il predicatore cattolico a non conformarsi al precetto di predicare « sempre e solo » il santo Vangelo.
È forse superfluo di aggiungere che chi fa « opus evangelistae » non deve limitarsi a predicare solo dal pulpito, ma deve procurare che tutta la sua vita sia una predica continua. Sia predica il suo raccoglimento all’altare; predica la gravità del suo contegno nei passeggi, nelle visite e nei pubblici ritrovi; predica la serietà dei suoi discorsi famigliari, predica l’amorevolezza del suo tratto nell’accogliere chi a lui ricorre. Anche qui possiamo fare appello all’autorità di San Paolo, perché il grande Apostolo considera Timoteo obbligato ora ad esortare ora a riprendere, ma vuole che faccia l’una e l’altra cosa con dottrina e con pazienza: « argue, obsecra, increpa in omni patientia et doctrina ». Si può dire che con queste parole San Paolo si aprisse la via al suo comprensivo precetto: « opus fac evangelistae ».
E perché non dire altresì che riepilogasse poi gli obblighi dell’evangelista con quelle altre parole che soggiungeva all’intimazione del precetto « opus fac evangelistae »? Il « ministerium tuum imple, sobrius esto » riassume tutti i doveri del predicatore, perché « ille implet officium evangelistae — dice san Tommaso nel Commento all’epistola Paolina — qui verbo praedicat et opere implet », e la sobrietà di cui parla l’Apostolo non riguarda tanto la parsimonia dei cibi quanto la discrezione in tutte le opere, come insegna ancora lo stesso Dottore Angelico: « sobrietas ponitur hic pro discretione » [7].
Oh! con quanta ragione ci siamo dunque rivolti a San Paolo per averne una parola che ci facesse conoscere ciò che l’ufficio del predicatore è in se stesso e ciò che richiede in chi deve adempierlo. Voi, o dilettissimi figli, mostrerete, nell’imminente Quaresima, di aver bene appreso questo insegnamento dell’Apostolo, e la pratica dei discepoli, conforme alla teoria del Maestro, farà meglio apprezzare, anche dai semplici fedeli, l’« opus evangelistae ».
Ad un così desiderabile effetto concorrerà non lievemente il buon esempio dei parroci di Roma, che noi salutiamo « evangelisti perenni ». Ma vi concorrerà soprattutto quella celeste benedizione che Noi imploriamo copiosa e sui parroci e sui predicatori di Roma. È sublime l’ufficio affidato agli uni e agli altri, ma la benedizione che per tutti imploriamo dall’alto deve renderlo quanto sublime altrettanto efficace, per la gloria di Dio, per la salvezza delle anime e per la spirituale utilità di chi lo compie.
BENEDICTUS PP. XV
[1] I Tim., VI, 11.
[2] I Tim., IV, 5.
[3] Marco, XVI, 15.
[4] Matteo, XXVIII, 20.
[5] Giovanni, XVII, 3.
[6] Ai Rom., X, 13.
[7] Comm. in epist. S. Pauli.
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