DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XV
AI PARROCI E AI PREDICATORI QUARESIMALISTI
DI ROMA
Lunedì, 7 febbraio 1921
È bello il nome di « uomini di Dio », che compete ai predicatori: « tu, autem, homo Dei » [1]; è sublime l’ufficio di « evangelisti », che i predicatori devono compiere: « opus fac Evangelistae » [2]. Ma quale è il fine cui devono essi mirare? È questa una domanda di non lieve momento. Perché, come chi porta un nome illustre deve sentirsi spronato, anche dal semplice ricordo di quel nome, a conformare i suoi atti all’avita nobiltà e grandezza della famiglia cui appartiene, così il predicatore, che sa di essere chiamato « uomo di Dio », nulla deve compiere che possa renderlo immeritevole di tal nome. Del pari, come un artefice lavora con perfezione tanto maggiore quanto meglio conosce ed apprezza l’eccellenza dell’opera che gli è commessa, così il predicatore si distingue per zelo tanto più operoso quanto più alta è la stima che egli ha dell’« opus Evangelistae », in cui consiste il suo ministero. Sembra nondimeno che dalla considerazione del fine proposto a se medesimo il predicatore debba trarre uno stimolo a ben fare, anche più forte di quello che trae dal ricordo del suo nome e del suo ufficio. Se, infatti, tra i motivi che muovono l’uomo ad agire sono i più efficaci quelli che sono a lui intrinseci, chi non dirà che il pensiero del fine, come quello che è cosa dello spirito del predicatore, deve essere a questi uno stimolo più potente che non quello del nome, venuto a lui dal di fuori, o quello dell’ufficio, di cui egli non ha determinato la natura?
Non intendiamo, pertanto, di togliere valore né alle esortazioni né agli augurî, che, nei due anni immediatamente precedenti, Noi stessi rivolgemmo ai quaresimalisti di Roma, appropriandoci le parole dell’Apostolo: « tu, autem, homo Dei, opus fac Evangelistae ». Crediamo, nondimeno, che quelle esortazioni possano acquistare nuova forza e quegli augurî possano divenire più efficaci, se i predicatori oggi riuniti alla Nostra presenza, non paghi di ricordare il significato del loro nome e la natura del loro ufficio, faranno attenzione anche all’importanza del fine che, nell’abbracciare il ministero della sacra predicazione, essi hanno dovuto proporre a se stessi. «In omnibus respice finem », è dettato di antica sapienza; ma a Noi arride oggi la speranza di poter raccogliere nuova conferma dell’utilità di quest’antico ed aureo dettato.
Nella categoria dei fini, non meno che in quella degli agenti, è posto un ordine perché, nell’una e nell’altra, chi ha il carattere di « principale » deve andare innanzi a chi ha solo quello di « secondario ». Vi sono poi dei criteri, che ci aiutano a ravvisare l’ordine posto nella serie dei fini intesi dall’uomo. Fra questi criteri è principalissimo quello, onde un fine inteso dall’uomo ci apparisce tanto più eccellente quanto più si avvicina ad un fine inteso da Dio. Di qui è facile argomentare il pregio di ogni opera che sia dall’uomo diretta alla gloria di Dio, perché il fine di tale opera si avvicina a quello dello stesso Dio, il quale proclama di aver fatto tutto per la sua gloria: « et annuntiabunt gloriam meam gentibus » [3]. Tuttavia non è da qui che Noi intendiamo argomentare il pregio del fine cui deve mirare il predicatore. Poiché, volendolo distinguere dal fine che devono avere tutti i cristiani, i quali devono tutti lavorare per la gloria del loro eterno Fattore, crediamo che l’eccellenza del fine cui deve mirare il predicatore, più che dal suo avvicinamento al fine di Dio Creatore, possa e debba rilevarsi dalla continuazione del fine di Dio Redentore.
Infatti il Verbo di Dio, fattosi carne, disse apertamente di sé che venne al mondo affinché gli uomini avessero la vita e l’avessero abbondante: «Ego veni ut vitam habeant, et abundantius habeant » [4]. La vita, cui accennava il divino Maestro nella lezione riferita da san Giovanni, era evidentemente quella dello spirito. Ma la vita dello spirito consiste nel conoscere e nell’intendere la verità, consiste nel conoscere e nell’amare il bene. Ne segue che lo stesso divino Maestro poteva rivolgersi al suo eterno Padre e dire: «Haec est vita aeterna, ut cognoscant te solum Deum verum, et quem misisti Iesum Christum » [5]; infatti la cognizione del Padre dovea mostrarcelo Signore della scienza ed autore di ogni consolazione: « scientiarum Dominus Auctor totius consolationis », mentre la cognizione del divin Figliuolo dovea mostrarcelo « plenum gratiae et veritatis » [6]. Per ora ci basta di avere additato il chiarore di questa luce di verità e l’ardore di questa fiamma di carità, in cui consiste la vita dello spirito secondo l’influsso che viene dall’alto.
Ma non mira il predicatore a diffondere questa stessa luce ed a dilatare questa stessa fiamma? Ogni qualvolta esce a predicare, chiede la benedizione, per poter annunziare degnamente il santo Vangelo: « ut digne… annuntiem Evangelium suum »; ma la buona novella, significata dall’Evangelo, fu appunto la verità che mise in fuga le tenebre del paganesimo e fu la legge dell’amore succeduta all’impero della forza nella tirannia della barbarie. Oh, con quanta ragione può dunque dirsi che il fine, cui deve mirare il predicatore, è continuazione del fine inteso dal Dio Redentore! « Io sono venuto — diceva Gesù Cristo — affinché gli uomini abbiano la vita, e l’abbiano abbondante ». Del pari i predicatori possono dire: «Noi aspiriamo a dare agli uomini la vita dello spirito, e, per darla più abbondantemente, in determinate epoche dell’anno, fra le quali primeggia quella della Quaresima, ci adoperiamo a far risplendere ognor meglio la luce della verità evangelica ed a rendere ognor più facile ed universale la pratica del bene ». Non si allontana, dunque, dal vero, anzi esprime il vero fine cui deve tendere il predicatore, chi gli pone in bocca le parole stesse con le quali Gesù dichiarava il fine della sua missione quaggiù: «Veni ut vitam habeant, et abundantius habeant ».
Giudichiamo superfluo ricordare che, nonostante l’affermata parità tra il fine inteso da Gesù e quello del predicatore, corre infinita distanza fra l’opera dell’Uno e dell’altro, perché, mentre il Dio Redentore ha dato la vita agli uomini, illuminandone le menti e santificandone i cuori, « per virtù propria », i predicatori, invece, possono compiere l’una e l’altra cosa solo « in virtù del ministero » ad essi conferito in nome dello stesso Signor Nostro Gesù Cristo. Ma, anche riconosciuta — come non può non riconoscersi da tutti — questa enorme differenza fra l’opera di un uomo e quella di un Dio, non è meno vero che nel fine cui mira il predicatore dobbiamo ravvisare una sovrana eccellenza, dipendente dall’avvicinamento del fine stesso a quello inteso dal divin Redentore. Ve la ravvisino anzitutto coloro, ai quali tocca in sorte di compiere un’opera di tanta importanza, quanta ne ha quella di dare la vita dello spirito ai propri simili. Ecco la prima applicazione al caso nostro dell’antico adagio: « in omnibus respice finem ».
Non senza motivo il divin Salvatore, all’annunzio dello scopo della sua venuta nel mondo, premise il ricordo dei molti mercenari che si erano presentati come custodi dell’ovile, in cui è raffigurato il genere umano, ma che in verità si erano manifestati ladri e assassini: « omnes, quotquot venerunt, fures et latrones ». Si può dire che a costoro Gesù applicava la terribile sentenza: « fur non venit nisi ut furetur, et mactet, et perdat », perché ad un campo di desolazione e di morte voleva contrapporre il giardino della vera vita, che Egli avrebbe dischiuso ai suoi seguaci. Come in un quadro le tinte oscure del contorno giovano a far risaltare il candore e la bellezza della figura che campeggia nel mezzo, così le ombre di morte accumulate nella terra dall’idolatria e dal paganesimo, avrebbero servito a mettere in più chiara luce le dottrine evangeliche, e la vita apportata dal Messia sarebbe stata tanto più apprezzata quanto l’esperienza avrebbe meglio confermato che « fur non venit nisi ut furetur, et mactet, et perdat ».
Ma oh! come si rassomiglia ad un campo di morte l’odierna società, avvolta fra le tenebre di spaventosa ignoranza e coperta dalle ombre di orribili colpe! Apprezzate, perciò, altamente la vostra sorte, o dilettissimi figli, che avete abbracciato il ministero della sacra predicazione, perché, per mezzo di questa, voi siete fatti continuatori dell’opera di Dio. Nell’ordine naturale i genitori sono cooperatori di Dio per la conservazione del genere umano. Eppure quanto son rari i genitori che il loro ufficio di natura considerano sotto il prisma di un concorso all’opera di Dio, conservatore del mondo! Anche voi, però, o curati dilettissimi, anche voi, o sacri oratori, siete dal popolo salutati col nome di padri, perché il popolo chiama « padre curato » o « padre predicatore » rispettivamente il parroco e il quaresimalista, anche quando né l’uno né l’altro appartiene al clero regolare. Ciò significa che il linguaggio popolare attribuisce ai parroci e ai predicatori il fine di dar la vita spirituale a chi ne è miseramente privo. Possiamo perciò dire che è confermato dal senso comune, essere il fine del predicatore la continuazione di quello che a Se medesimo attribuiva il divin Redentore, quando diceva: « Ego veni ut vitam habeant, et abundantius habeant ».
Ma se il nome di « uomini di Dio » eccita i predicatori che lo portano a zelare sempre gli interessi di Dio; se l’ufficio di evangelisti, in cui consiste il ministero della predicazione, obbliga il sacro oratore ad annunziare tutta e sola la « buona novella », recata al mondo da Gesù Cristo, il pensiero del fine cui mirano i predicatori deve accenderli di santa gioia, deve entusiasmarli all’eco della voce ripetuta al loro orecchio: «Voi avete il fine stesso dell’Uomo-Dio! »: « ut vitam habeant, et abundantius habeant ». Ed ecco dimostrata un’altra volta l’utilità che il predicatore può trarre dal tener presente l’antica lezione: « in omnibus respice finem ».
Nessuno creda che nel predicatore possa bastare un entusiasmo teorico. Poc’anzi abbiamo deplorato l’ingratitudine di chi non apprezza l’altissima sorte di essere cooperatore di Dio nella propagazione e conservazione del genere umano; ora non sapremmo dirci paghi, se in un predicatore vedessimo solamente la compiacenza che in lui produce la constatata somiglianza del suo fine col fine inteso dal divin Redentore. Non saremmo paghi nemmeno se lo vedessimo vantare il privilegio di dare o di accrescere la vita dello spirito al suo prossimo; perché in lui vogliamo vedere altresì una cura costante ed uno sforzo continuo nell’imitare il modo, onde il Messia raggiunse il fine a Sé proposto nel venire al mondo.
Ci insegna l’Angelico che le cose ordinate ad un fine sono necessarie se ed in quanto senza di esse il fine non si potrebbe raggiungere [7]: donde consegue che chi vuole un fine, deve altresì volere ciò che al fine medesimo è connesso. Ma chi non dirà che il predicatore, per dare la vita dello spirito al prossimo, deve fare anzitutto ciò che allo stesso scopo fece una prima volta Gesù Cristo? Il divino Maestro, nella sua vita mortale, apparve sollecito della gloria del suo celeste Padre e dell’integrità della vera dottrina, perché alla Madre, che dolcemente lo rimproverava di essere rimasto nel tempio, disse: «Non sapevate che io debbo occuparmi in ciò che riguarda il mio divin Padre? ». E, giunto al termine della sua mortale carriera, ruppe il silenzio, mantenuto innanzi ai suoi giudici, solo quando il culto dovuto alla verità esigeva che egli affermasse l’essere suo, ossia la sua condizione di Figliuolo di Dio. Il predicatore perciò, sulle orme di così mirabile esempio, deve annunziare tutta la verità evangelica, in qualunque fase della sua predicazione, senza nulla tacere né per riguardo alla carne, né per timore di possibili mali. Gesù consentì al momentaneo distacco dalla sua santissima Madre e dal Padre suo putativo, perché, qualche anno dopo, avrebbe dovuto dire di essere venuto al mondo affinché gli uomini avessero la vita: « ut vitam habeant ». Gesù, che avea taciuto nell’ascoltare molteplici accuse portate contro di lui nei tribunali, non tollerò che il suo silenzio potesse far vacillare la fede dei discepoli, ai quali era venuto a dar la vita, e voleva che l’avessero abbondante: « ut abundantius habeant ». Non altrimenti, il predicatore, il quale, non voglia — come non deve — contentarsi di vantare la parità del suo fine con quello del divin Redentore, ma voglia — come deve — imitare il modo onde il Messia raggiunse il fine a Sé proposto nel venire al mondo, deve indirizzare tutto il ministero della sua predicazione alla gloria di Dio, per poter ripetere con Gesù: « in iis quae Patris mei sunt oportet me esse »; e deve del pari indirizzare il suo ministero all’incremento della vita spirituale dei suoi uditori, per poter dire un’altra volta col divino Maestro, mercé l’eloquenza dei fatti più che col labbro: « Ego veni, ut vitam habeant, et abundantius habeant ».
Non ci indugieremo a far rilevare ciò che importa in senso positivo cotesta imitazione della forma onde il Messia raggiunse il suo fine; accenniamo piuttosto a ciò che importa in senso negativo. Perché esclude la possibilità che il predicatore miri a soddisfare la propria ambizione, a farsi il nome di dotto o di letterato, a blandire gli orecchi degli uditori senza muoverne il cuore. Chi ciò facesse mostrerebbe di non conoscere, almeno in pratica, il solo e vero fine cui deve tendere il predicatore. E non diverso sospetto a carico suo autorizzerebbe chi non fosse disposto a rivolgere la sua parola ad ogni classe di persone, ma preferisse le più colte ed elevate, e a queste indirizzasse un linguaggio troppo ricercato e fiorito; imperocché Gesù Cristo predicava alle turbe e, per farsi intendere da queste, usava di preferenza il linguaggio, semplice e famigliare, delle parabole. Dite lo stesso di chi sdegnasse intrattenersi coi fanciulli, e avesse a noia l’insegnamento del catechismo, perché Gesù non volle che fossero allontanati da Lui i pargoli. E dite ancora lo stesso di chi tentasse evitare i disagi, e fuggisse le fatiche che trae seco il ministero della predicazione, perché Gesù lo continuava presso il pozzo di Sichar sebbene « fatigatus ex itinere » [8], e perché Gesù, a compiere l’ufficio di Maestro, recavasi animoso anche colà dove i discepoli ricordavano che i giudei lo volevano mettere a morte [9].
Vi faremmo torto, o dilettissimi figli, se insistessimo ulteriormente nel dimostrare che chi apprezza un fine deve usare i mezzi che più efficacemente conducono a raggiungere il fine stesso. Nessuno di voi ignora l’insegnamento di san Tommaso: « quanto aliquid efficacius ordinatur ad finem, tanto est melius » [10]. Ma, se il fine del predicatore non è dissimile, benché tanto inferiore per eccellenza, da quello che ebbe il divin Redentore nel venire su questa terra, è evidente che il predicatore, per conseguire il suo fine, non può usare mezzo più efficace della imitazione di ciò che fece il Redentore divino per raggiungere il suo. Nondimeno in questa imitazione possono aversi differenti gradi: lo si rileva anche dalle citate parole dell’Angelico, che fanno dipendere la maggiore o minore perfezione dell’opera dall’efficacia, più o meno grande, dei mezzi adoperati: « quanto efficacius… tanto est melius ». Noi, perciò, amiamo sperare che i sacri oratori, destinati ad annunziare la divina parola al popolo di Roma nell’imminente Quaresima, non si allontaneranno oggi dalla Nostra presenza, se prima non avranno formato il proposito di imitare sempre meglio il Modello di tutti i predicatori, Gesù Cristo. Essi stanno per presentarsi al popolo appunto come ambasciatori di Gesù Cristo: l’ambasciatore rappresenta la persona stessa del Sovrano che lo manda; ma il popolo come potrebbe ravvisare la persona di Gesù Cristo in un predicatore che non predicasse come Gesù Cristo ha predicato? Oh! vi sarebbe da temere che il popolo sospettasse in quel predicatore un fine diverso da quello che ebbe in mira il divin Redentore nel venire su questa terra.
Ma noi vogliamo che tutti i predicatori di Roma possano con ogni verità far proprie le parole del divino Maestro: «Veni ut (homines) vitam habeant, et abundantius habeant ». E lo stesso augurio rivolgiamo ai parroci di quest’alma Città, oggi qua convenuti a farci corona. In un certo senso può dirsi che essi possono appropriarsi anche più letteralmente dei predicatori, le parole: « ut vitam habeant », perché sono i parroci che, col santo battesimo, dischiudono la fonte della vita spirituale, e sono generalmente i parroci che, con l’amministrazione del sacramento della penitenza ai moribondi, restituiscono la vita della grazia a coloro che l’hanno perduta. Ma, anche prescindendo da questa letterale interpretazione delle parole: «Veni ut vitan habeant », non sono i parroci che, con la istruzione catechistica, ad essi doverosa, aprono la mente dei fanciulli alla cognizione della verità evangelica? non sono i parroci che l’amore al bene mettono nei cuori, mercé quell’insieme di esortazioni, di esempi e di consigli, di sacre funzioni e di opere buone, che costituiscono la vita parrocchiale? Oh! si riproduca, dunque, nei parroci la imitazione dello zelo che ebbe Gesù Cristo per la salvezza delle anime, e, così nei parroci come nei predicatori di Roma, sia feconda di quelle grazie che Noi ad essi auguriamo, mentre agli uni e agli altri impartiamo con effusione di paterno affetto l’Apostolica Benedizione.
[1] I a Timoteo, VI, 11.
[2] II a Timoteo, IV, 5.
[3] Isaia, LXVI, 19.
[4] Giov., X, 10.
[5] Giov., XVII, 3.
[6] Giov., I, 14.
[7] Sum. th., 1 a q., XIX.
[8] Giov. IV.
[9] Giov., XI.
[10] 2 a 2e, q. CLII.
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