DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DEL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE
Aula della Benedizione
Lunedì, 8 febbraio 2021
Eccellenze, Signore e Signori,
ringrazio il Decano, Sua Eccellenza il Signor George Poulides, Ambasciatore di Cipro, per le cortesi parole e i voti augurali che ha espresso a nome di tutti voi, e mi scuso anzitutto per gli inconvenienti che la cancellazione dell’incontro previsto il 25 gennaio può avervi causato. Vi sono grato per la comprensione e la pazienza, e per aver accolto l’invito a essere presenti questa mattina, nonostante le difficoltà, per il nostro tradizionale ritrovo.
Ci incontriamo stamani nella cornice più spaziosa dell’Aula delle Benedizioni, per rispettare l’esigenza del maggiore distanziamento personale al quale la pandemia ci obbliga. Tuttavia, la distanza è solamente fisica. Il nostro ritrovarci simboleggia piuttosto il contrario. Esso è un segno di vicinanza, di quella prossimità e sostegno reciproco cui deve aspirare la famiglia delle Nazioni. In questo tempo di pandemia si tratta di un dovere ancora più cogente, poiché è evidente a tutti che il virus non conosce barriere né può essere facilmente isolato. Sconfiggerlo è perciò una responsabilità che chiama in causa ciascuno di noi personalmente, come pure i nostri Paesi.
Vi sono perciò riconoscente per l’impegno che quotidianamente profondete per favorire i rapporti fra i vostri Paesi o le Organizzazioni Internazionali che rappresentate e la Santa Sede. Numerose sono le testimonianze di vicinanza reciproca che abbiamo potuto scambiarci nel corso di questi mesi, anche grazie all’uso delle nuove tecnologie, che hanno permesso di superare le limitazioni causate dalla pandemia.
Indubbiamente tutti aspiriamo a riprendere quanto prima i contatti in presenza, e il nostro ritrovarci oggi intende essere un segno di buon auspicio in tal senso. Parimenti, è mio desiderio riprendere a breve i Viaggi Apostolici, cominciando con quello in Iraq, previsto nel marzo prossimo. I viaggi costituiscono, infatti, un aspetto importante della sollecitudine del Successore di Pietro per il Popolo di Dio sparso in tutto il mondo, come pure del dialogo della Santa Sede con gli Stati. Inoltre, essi sono spesso l’occasione propizia per approfondire, in spirito di condivisione e di dialogo, il rapporto tra religioni diverse. Nel nostro tempo, il dialogo interreligioso è una componente importante nell’incontro fra popoli e culture. Quando è inteso non come rinuncia alla propria identità, ma come occasione di maggiore conoscenza e arricchimento reciproco, esso costituisce un’opportunità per i leader religiosi e per i fedeli delle varie confessioni e può sostenere l’opera dei leader politici nella loro responsabilità di edificare il bene comune.
Ugualmente importanti sono gli accordi internazionali, che permettono di approfondire i legami di fiducia reciproca e consentono alla Chiesa di cooperare con maggior efficacia al benessere spirituale e sociale dei vostri Paesi. In tale prospettiva, desidero qui menzionare lo scambio degli strumenti di ratifica dell’Accordo-quadro tra la Santa Sede e la Repubblica Democratica del Congo e dell’Accordo sullo statuto giuridico della Chiesa Cattolica in Burkina Faso, nonché la firma del Settimo Accordo Addizionale fra la Santa Sede e la Repubblica Austriaca alla Convenzione per il Regolamento di Rapporti Patrimoniali del 23 giugno 1960. Inoltre, il 22 ottobre scorso, la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese hanno concordato di prolungare, per altri due anni, la validità dell’Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi in Cina, firmato a Pechino nel 2018. Si tratta di un’intesa di carattere essenzialmente pastorale e la Santa Sede auspica che il cammino intrapreso prosegua, in spirito di rispetto e di fiducia reciproca, contribuendo ulteriormente alla soluzione delle questioni di comune interesse.
Cari Ambasciatori,
l’anno da poco conclusosi ha lasciato dietro a sé un carico di paura, sconforto e disperazione, insieme con molti lutti. Esso ha posto le persone in una spirale di distacco e di sospetto reciproco e ha spinto gli Stati a erigere barriere. Il mondo interconnesso a cui eravamo abituati ha ceduto il passo ad un mondo nuovamente frammentato e diviso. Ciononostante, le ricadute della pandemia sono davvero globali, sia perché essa coinvolge di fatto tutta l’umanità e i Paesi del mondo, sia perché incide su molteplici aspetti della nostra vita, contribuendo ad aggravare «crisi tra loro fortemente interrelate, come quelle climatica, alimentare, economica e migratoria».[1] Alla luce di questa considerazione, ho ritenuto opportuno dare vita alla Commissione Vaticana Covid-19, con lo scopo di coordinare la risposta della Santa Sede e della Chiesa alle sollecitazioni giunte dalle diocesi di tutto il mondo, per far fronte all’emergenza sanitaria e alle necessità che la pandemia ha fatto emergere.
Fin dall’inizio è parso infatti evidente che la pandemia avrebbe inciso notevolmente sullo stile di vita cui eravamo abituati, facendo venire meno comodità e certezze consolidate. Essa ci ha messo in crisi, mostrandoci il volto di un mondo malato non solo a causa del virus, ma anche nell’ambiente, nei processi economici e politici, e più ancora nei rapporti umani. Ha messo in luce i rischi e le conseguenze di un modo di vivere dominato da egoismo e cultura dello scarto e ci ha posto davanti un’alternativa: continuare sulla strada finora percorsa o intraprendere un nuovo cammino.
Vorrei allora soffermarmi su alcune delle crisi provocate o evidenziate dalla pandemia, guardando nel contempo alle opportunità che da esse derivano per edificare un mondo più umano, giusto, solidale e pacifico.
Crisi sanitaria
La pandemia ci ha rimesso potentemente dinanzi a due dimensioni ineludibili dell’esistenza umana: la malattia e la morte. Proprio per questo richiama il valore della vita, di ogni singola vita umana e della sua dignità, in ogni istante del suo itinerario terreno, dal concepimento nel grembo materno fino alla sua fine naturale. Purtroppo, duole constatare che, con il pretesto di garantire presunti diritti soggettivi, un numero crescente di legislazioni nel mondo appare allontanarsi dal dovere imprescindibile di tutelare la vita umana in ogni sua fase.
La pandemia ci ricorda pure il diritto alla cura, di cui ogni essere umano è destinatario, come ho evidenziato anche nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, celebrata il 1° gennaio scorso. «Ogni persona umana – infatti – è un fine in sé stessa, mai semplicemente uno strumento da apprezzare solo per la sua utilità, ed è creata per vivere insieme nella famiglia, nella comunità, nella società, dove tutti i membri sono uguali in dignità. È da tale dignità che derivano i diritti umani, come pure i doveri, che richiamano ad esempio la responsabilità di accogliere e soccorrere i poveri, i malati, gli emarginati».[2] Se si sopprime il diritto alla vita dei più deboli, come si potranno garantire con efficacia tutti gli altri diritti?
In questa prospettiva, rinnovo il mio appello affinché ad ogni persona umana siano offerte le cure e l’assistenza di cui abbisogna. A tal fine, è indispensabile che quanti hanno responsabilità politiche e di governo si adoperino per favorire innanzitutto l’accesso universale all’assistenza sanitaria di base, incentivando pure la creazione di presidi medici locali e di strutture sanitarie confacenti alle reali esigenze della popolazione, nonché la disponibilità di terapie e farmaci. Non può essere infatti la logica del profitto a guidare un campo così delicato quale quello dell’assistenza sanitaria e della cura.
È poi indispensabile che i notevoli progressi medici e scientifici compiuti nel corso degli anni, i quali hanno permesso di sintetizzare in tempi assai brevi vaccini che si prospettano efficaci contro il coronavirus, vadano a beneficio di tutta quanta l’umanità. Esorto pertanto tutti gli Stati a contribuire attivamente alle iniziative internazionali volte ad assicurare una distribuzione equa dei vaccini, non secondo criteri puramente economici, ma tenendo conto delle necessità di tutti, specialmente di quelle delle popolazioni più bisognose.
Ad ogni modo, davanti a un nemico subdolo e imprevedibile qual è il Covid-19, l’accessibilità dei vaccini deve essere sempre accompagnata da comportamenti personali responsabili tesi a impedire il diffondersi della malattia, attraverso le necessarie misure di prevenzione a cui ci siamo ormai abituati in questi mesi. Sarebbe fatale riporre la fiducia solo nel vaccino, quasi fosse una panacea che esime dal costante impegno del singolo per la salute propria e altrui. La pandemia ci ha mostrato che nessuno è un’isola, evocando la celebre espressione del poeta inglese John Donne, e che «la morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità».[3]
Crisi ambientale
Non è solo l’essere umano ad essere malato, lo è anche la nostra Terra. La pandemia ci ha mostrato ancora una volta quanto anch’essa sia fragile e bisognosa di cure.
Certamente vi sono profonde differenze fra la crisi sanitaria provocata dalla pandemia e la crisi ecologica causata da un indiscriminato sfruttamento delle risorse naturali. Quest’ultima ha una dimensione molto più complessa e permanente, e richiede soluzioni condivise di lungo periodo. In realtà, gli impatti, ad esempio, del cambiamento climatico, siano essi diretti, quali gli eventi atmosferici estremi come alluvioni e siccità, oppure indiretti, come la malnutrizione o le malattie respiratorie, sono spesso gravidi di conseguenze che permangono per molto tempo.
La risoluzione di queste crisi richiede una collaborazione internazionale per la cura della nostra casa comune. Auspico pertanto che la prossima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP26), prevista a Glasgow nel novembre prossimo, consenta di trovare un’intesa efficace per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico. È questo il tempo di agire, poiché possiamo già toccare con mano gli effetti di una protratta inazione.
Penso ad esempio alle ripercussioni sulle numerose piccole isole dell’Oceano Pacifico che rischiano gradualmente di scomparire. È una tragedia che causa non solo la distruzione di interi villaggi, ma costringe anche le comunità locali, e soprattutto le famiglie, a spostarsi continuamente, perdendo identità e cultura. Penso pure alle inondazioni nel sud-est asiatico, specialmente in Vietnam e nelle Filippine, che hanno provocato vittime e lasciato intere famiglie senza mezzi di sussistenza. Né si può tacere il progressivo riscaldamento della Terra, che ha causato devastanti incendi in Australia e in California.
Anche in Africa i cambiamenti climatici, aggravati da interventi sconsiderati dell’uomo e ora anche dalla pandemia, sono causa di grave preoccupazione. Mi riferisco anzitutto all’insicurezza alimentare che nel corso dell’ultimo anno ha colpito particolarmente il Burkina Faso, il Mali e il Niger, con milioni di persone che soffrono la fame; come pure alla situazione in Sud Sudan, dove si corre il rischio di una carestia e dove peraltro persiste una grave emergenza umanitaria: oltre un milione di bambini ha carenze alimentari, mentre i corridoi umanitari sono spesso ostacolati e la presenza delle agenzie umanitarie nel territorio viene limitata. Anche per far fronte a tale situazione è quanto mai urgente che le Autorità sud-sudanesi superino le incomprensioni e proseguano nel dialogo politico per una piena riconciliazione nazionale.
Crisi economica e sociale
L’obiettivo di contenimento del coronavirus ha spinto molti governi ad adottare misure restrittive della libertà di circolazione, che hanno comportato, per diversi mesi, la chiusura di esercizi commerciali e il generale rallentamento delle attività produttive, con gravi ricadute sulle imprese, soprattutto quelle medio-piccole, sull’occupazione e conseguentemente sulla vita delle famiglie e d’intere fasce della società, particolarmente quelle più deboli.
La crisi economica che ne è conseguita ha messo in evidenza un altro morbo che colpisce il nostro tempo: quello di un’economia basata sullo sfruttamento e sullo scarto sia delle persone sia delle risorse naturali. Ci si è dimenticati troppo spesso della solidarietà e degli altri valori che consentono all’economia di essere al servizio dello sviluppo umano integrale, anziché di interessi particolari, e si è persa di vista la valenza sociale dell’attività economica e la destinazione universale dei beni e delle risorse.
L’attuale crisi è allora l’occasione propizia per ripensare il rapporto fra la persona e l’economia. Serve una sorta di “nuova rivoluzione copernicana” che riponga l’economia a servizio dell’uomo e non viceversa, «iniziando a studiare e praticare un’economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda».[4]
Per far fronte alle conseguenze negative di questa crisi, numerosi governi hanno previsto diverse iniziative e lo stanziamento di ingenti finanziamenti. Tuttavia, non di rado sono prevalse spinte a cercare soluzioni particolari a un problema che ha invece dimensioni globali. Oggi meno che mai si può pensare di fare da sé. Occorrono iniziative comuni e condivise anche a livello internazionale, soprattutto a sostegno dell’occupazione e della protezione delle fasce più povere della popolazione. In tale prospettiva, ritengo significativo l’impegno dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri, che pur tra le difficoltà, hanno saputo mostrare che si può lavorare con impegno per raggiungere compromessi soddisfacenti a vantaggio di tutti i cittadini. Lo stanziamento proposto dal piano Next Generation EU rappresenta un significativo esempio di come la collaborazione e la condivisione delle risorse in spirito di solidarietà siano non solo obiettivi auspicabili, ma realmente accessibili.
In molte parti del mondo, la crisi ha interessato soprattutto quanti lavorano nei settori informali, i quali sono stati i primi a vedere scomparire i propri mezzi di sussistenza. Vivendo al di fuori dei margini dell’economia formale, non hanno neanche accesso agli ammortizzatori sociali, comprese l’assicurazione contro la disoccupazione e l’assistenza sanitaria. Così, spinti dalla disperazione, tanti hanno cercato altre forme di reddito, esponendosi ad essere sfruttati mediante il lavoro nero o forzato, la prostituzione e varie attività criminali, tra cui la tratta delle persone.
Al contrario, ogni essere umano ha diritto – ha diritto! – e dev’essere messo in condizioni di ottenere «i mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita».[5] È necessario, infatti, che sia assicurata a tutti la stabilità economica per evitare le piaghe dello sfruttamento e contrastare l’usura e la corruzione, che affliggono molti Paesi nel mondo, e tante altre ingiustizie che si consumano ogni giorno di fronte agli occhi stanchi e distratti della nostra società contemporanea.
Il maggior tempo trascorso in casa ha portato pure a stare più a lungo in modo alienante davanti al computer e ad altri mezzi di comunicazione, con gravi ricadute sulle persone più vulnerabili, specialmente i poveri e disoccupati. Essi sono più facili prede della criminalità informatica – il cybercrime – nei suoi risvolti più disumanizzanti, dalle frodi alla tratta di esseri umani, allo sfruttamento della prostituzione, compresa quella infantile, nonché alla pedopornografia.
La chiusura dei confini a causa della pandemia, unitamente alla crisi economica, ha accentuato anche diverse emergenze umanitarie, tanto nelle zone di conflitto quanto nelle regioni colpite dal cambiamento climatico e dalla siccità, nonché nei campi per rifugiati e migranti. Penso particolarmente al Sudan, dove si sono rifugiate migliaia di persone in fuga dalla regione del Tigray, come pure ad altri Paesi dell’Africa sub-sahariana, o alla regione di Cabo Delgado in Mozambico, dove tanti sono state costretti ad abbandonare il proprio territorio e si trovano ora in condizioni assai precarie. Il mio pensiero va pure allo Yemen e all’amata Siria, dove, oltre ad altre gravi emergenze, l’insicurezza alimentare affligge gran parte della popolazione e i bambini sono stremati dalla malnutrizione.
In diversi casi le crisi umanitarie sono aggravate dalle sanzioni economiche, le quali, il più delle volte, finiscono per ripercuotersi principalmente sulle fasce più deboli della popolazione, anziché sui responsabili politici. Pertanto, pur comprendendo la logica delle sanzioni, la Santa Sede non ne vede l’efficacia e auspica un loro allentamento, anche per favorire il flusso di aiuti umanitari, innanzitutto di medicinali e di strumenti sanitari, oltremodo necessari in questo tempo di pandemia.
La congiuntura che stiamo attraversando sia analogamente di stimolo per condonare, o perlomeno ridurre, il debito che grava sui Paesi più poveri e che di fatto ne impedisce il recupero e il pieno sviluppo.
Lo scorso anno ha visto pure un ulteriore aumento dei migranti, i quali, complice la chiusura dei confini, sono dovuti ricorrere a percorsi sempre più pericolosi. Il flusso massiccio ha peraltro incontrato una crescita del numero dei respingimenti illegali, spesso attuati per impedire ai migranti di chiedere asilo, in violazione del principio di non-respingimento (non-refoulement). Molti vengono intercettati e rimpatriati in campi di raccolta e di detenzione, dove subiscono torture e violazioni dei diritti umani, quando non trovano la morte attraversando mari e altri confini naturali.
I corridoi umanitari, implementati nel corso degli ultimi anni, contribuiscono certamente ad affrontare alcune delle suddette problematiche, salvando numerose vite. Tuttavia, la portata della crisi rende sempre più urgente affrontare alla radice le cause che spingono a migrare, come pure esige uno sforzo comune per sostenere i Paesi di prima accoglienza, che si fanno carico dell’obbligo morale di salvare vite umane. Al riguardo, si attende con interesse la negoziazione del Nuovo Patto dell’Unione Europea sulla migrazione e l’asilo, pur osservando che politiche e meccanismi concreti non funzioneranno se non saranno sostenuti dalla necessaria volontà politica e dall’impegno di tutte le parti in causa, compresi la società civile e i migranti stessi.
La Santa Sede apprezza tutti gli sforzi compiuti in favore dei migranti e appoggia l’impegno dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), di cui quest’anno ricorre il 70° anniversario della fondazione, nel pieno rispetto dei valori espressi nella sua Costituzione e della cultura degli Stati membri in cui l’Organizzazione opera. Parimenti, la Santa Sede, quale membro del Comitato esecutivo dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), resta fedele ai principi enunciati nella Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati e al Protocollo del 1967, che stabiliscono la definizione legale di rifugiato, i loro diritti, nonché l’obbligo legale degli Stati a proteggerli.
Dalla Seconda guerra mondiale il mondo non aveva ancora assistito a un aumento così drammatico del numero di rifugiati, come quello che vediamo oggi. È pertanto urgente che si rinnovi l’impegno per la loro protezione, come pure per quella degli sfollati interni e di tutte le persone vulnerabili costrette a fuggire dalla persecuzione, dalla violenza, dai conflitti e dalle guerre. A questo proposito, nonostante gli importanti sforzi compiuti dalle Nazioni Unite nella ricerca di soluzioni e proposte concrete per affrontare in modo coerente il problema degli sfollamenti forzati, la Santa Sede esprime la propria preoccupazione per la situazione degli sfollati in diverse parti del mondo. Mi riferisco anzitutto all’area centrale del Sahel, dove, in meno di due anni, il numero degli sfollati interni è aumentato di venti volte.
Le criticità che ho fin qui evocato pongono in rilievo una crisi ben più profonda, che in qualche modo sta alla radice delle altre, la cui drammaticità è stata posta in luce proprio dalla pandemia. È la crisi della politica, che da tempo sta investendo molte società e i cui laceranti effetti sono emersi durante la pandemia.
Uno dei fattori emblematici di tale crisi è la crescita delle contrapposizioni politiche e la difficoltà, se non addirittura l’incapacità, di ricercare soluzioni comuni e condivise ai problemi che affliggono il nostro pianeta. È una tendenza a cui si assiste ormai da tempo e che si diffonde sempre più anche in Paesi di antica tradizione democratica. Mantenere vive le realtà democratiche è una sfida di questo momento storico[6], che interessa da vicino tutti gli Stati: siano essi piccoli o grandi, economicamente avanzati o in via di sviluppo. In questi giorni, il mio pensiero va in modo particolare al popolo del Myanmar, al quale esprimo il mio affetto e la mia vicinanza. Il cammino verso la democrazia intrapreso negli ultimi anni è stato bruscamente interrotto dal colpo di stato della settimana scorsa. Esso ha portato all’incarcerazione di diversi leader politici, che auspico siano prontamente liberati, quale segno di incoraggiamento a un dialogo sincero per il bene del Paese.
D’altronde, come affermava Pio XII nel suo memorabile Radiomessaggio del Natale 1944: «Esprimere il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti; non essere costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato: ecco due diritti del cittadino, che trovano nella democrazia, come indica il suo nome stesso, la loro espressione».[7] La democrazia si basa sul rispetto reciproco, sulla possibilità di tutti di concorrere al bene della società e sulla considerazione che opinioni differenti non solo non minano il potere e la sicurezza degli Stati, ma, in un confronto onesto, arricchiscono vicendevolmente e consentono di trovare soluzioni più adeguate ai problemi da affrontare. Il processo democratico richiede che si persegua un cammino di dialogo inclusivo, pacifico, costruttivo e rispettoso fra tutte le componenti della società civile in ogni città e nazione. Gli avvenimenti che, pur in modi e in contesti diversi, hanno caratterizzato l’ultimo anno da oriente a occidente, anche – ripeto – in Paesi di lunga tradizione democratica, dicono quanto sia ineludibile questa sfida e come non ci si possa esimere dall’obbligo morale e sociale di affrontarla con atteggiamento positivo. Lo sviluppo di una coscienza democratica esige che si superino i personalismi e prevalga il rispetto dello stato di diritto. Il diritto è infatti il presupposto indispensabile per l’esercizio di ogni potere e deve essere garantito dagli organi preposti indipendentemente dagli interessi politici dominanti.
Purtroppo la crisi della politica e dei valori democratici si ripercuote anche a livello internazionale, con ricadute sull’intero sistema multilaterale e l’evidente conseguenza che Organizzazioni pensate per favorire la pace e lo sviluppo – sulla base del diritto e non della “legge del più forte” – vedono compromessa la loro efficacia. Certamente, non si può tacere che nel corso degli ultimi anni il sistema multilaterale ha mostrato anche alcuni limiti. La pandemia è un’occasione da non sprecare per pensare e attuare riforme organiche, affinché le Organizzazioni internazionali ritrovino la loro vocazione essenziale a servire la famiglia umana per preservare la vita di ogni persona e la pace.
Uno dei segni della crisi della politica è proprio la reticenza che spesso si verifica ad intraprendere percorsi di riforma. Non bisogna avere paura delle riforme, anche se richiedono sacrifici e non di rado un cambiamento di mentalità. Ogni corpo vivo ha bisogno continuamente di riformarsi e in questa prospettiva si collocano pure le riforme che stanno interessando la Santa Sede e la Curia Romana.
Ad ogni modo non mancano comunque segni incoraggianti, quale l’entrata in vigore, alcuni giorni fa, del Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari, come pure l’estensione per un ulteriore quinquennio del Nuovo Trattato sulla Riduzione delle Armi Strategiche (il cosiddetto New START) fra la Federazione Russa e gli Stati Uniti d’America. D’altronde, come ho ribadito anche nella recente Enciclica Fratelli tutti, «se si prendono in considerazione le principali minacce alla pace e alla sicurezza con le loro molteplici dimensioni in questo mondo multipolare del XXI secolo, […] non pochi dubbi emergono circa l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a rispondere efficacemente a tali sfide».[8] Non è infatti «sostenibile un equilibro basato sulla paura, quando esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni di fiducia fra i popoli».[9]
Lo sforzo nell’ambito del disarmo e della non proliferazione degli armamenti nucleari, che, pur tra difficoltà e reticenze, occorre intensificare, dovrebbe essere egualmente condotto riguardo alle armi chimiche e nei confronti delle armi convenzionali. Troppe armi ci sono nel mondo! «Giustizia, saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti [e che] si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti»[10], affermava nel 1963 San Giovanni XXIII. E, mentre con il pullulare delle armi aumenta la violenza ad ogni livello e vediamo intorno a noi un mondo lacerato da guerre e divisioni, sentiamo crescere sempre più l’esigenza di pace, di una pace che «non è solo assenza di guerra, ma è vita ricca di senso, impostata e vissuta nella realizzazione personale e nella condivisione fraterna con gli altri».[11]
Come vorrei che il 2021 fosse l’anno in cui si scrivesse finalmente la parola fine al conflitto siriano, iniziato ormai dieci anni fa! Perché ciò accada, è necessario un rinnovato interesse anche da parte della Comunità internazionale ad affrontare con sincerità e con coraggio le cause del conflitto e a ricercare soluzioni attraverso le quali tutti, indipendentemente dall’appartenenza etnica e religiosa, possano contribuire come cittadini al futuro del Paese.
Il mio auspicio di pace va ovviamente alla Terra Santa. La fiducia reciproca fra Israeliani e Palestinesi dev’essere la base per un rinnovato e risolutivo dialogo diretto tra le Parti per risolvere un conflitto che perdura da troppo tempo. Invito la Comunità internazionale a sostenere e a facilitare tale dialogo diretto, senza pretendere di dettare soluzioni che non abbiano come orizzonte il bene di tutti. Palestinesi e Israeliani – ne sono certo – nutrono entrambi il desiderio di poter vivere in pace.
Parimenti, auspico un rinnovato impegno politico nazionale e internazionale per favorire la stabilità del Libano, che è attraversato da una crisi interna e rischia di perdere la sua identità e di trovarsi ancor più coinvolto nelle tensioni regionali. È quanto mai necessario che il Paese mantenga la sua identità unica, anche per assicurare un Medio Oriente plurale, tollerante e diversificato, nel quale la presenza cristiana possa offrire il proprio contributo e non sia ridotta a una minoranza da proteggere. I cristiani costituiscono il tessuto connettivo storico e sociale del Libano e ad essi, attraverso le molteplici opere educative, sanitarie e caritative, va assicurata la possibilità di continuare a operare per il bene del Paese, del quale sono stati fondatori. Indebolire la comunità cristiana rischia di distruggere l’equilibrio interno e la stessa realtà libanese. In quest’ottica va affrontata anche la presenza dei profughi siriani e palestinesi. Inoltre, senza un urgente processo di ripresa economica e di ricostruzione, si rischia il fallimento del Paese, con la possibile conseguenza di pericolose derive fondamentaliste. È dunque necessario che tutti i leader politici e religiosi, messi da parte i propri interessi, si impegnino a perseguire la giustizia e ad attuare vere riforme per il bene dei cittadini, agendo in modo trasparente e assumendosi la responsabilità delle proprie azioni.
Pace auspico pure per la Libia, anch’essa lacerata da un ormai lungo conflitto, con la speranza che il recente “Forum del dialogo politico libico”, tenutosi in Tunisia nel novembre scorso sotto l’egida delle Nazioni Unite, consenta effettivamente l’avvio dell’atteso processo di riconciliazione del Paese.
Preoccupazione destano pure altre aree del mondo. Mi riferisco in primo luogo alle tensioni politiche e sociali nella Repubblica Centrafricana; come pure a quelle che interessano in generale l’America Latina, le quali hanno radici nelle profonde disuguaglianze, nelle ingiustizie e nella povertà, che offendono la dignità delle persone. Parimenti, seguo con particolare attenzione il deterioramento dei rapporti nella Penisola coreana, culminato con la distruzione dell’ufficio di collegamento inter-coreano a Kaesong; e inoltre la situazione nel Caucaso meridionale, dove permangono diversi conflitti congelati, alcuni riaccesisi nel corso dell’anno passato, che minano la stabilità e la sicurezza dell’intera regione.
Infine, non posso dimenticare un’altra grave piaga di questo nostro tempo: il terrorismo, che ogni anno miete in tutto il mondo numerose vittime tra la popolazione civile inerme. È un male che è andato crescendo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e che ha avuto un momento culminante negli attentati che l’11 settembre 2001 hanno interessato gli Stati Uniti d’America, uccidendo quasi tremila persone. Purtroppo, il numero degli attentati è andato intensificandosi negli ultimi vent’anni, colpendo diversi Paesi in tutti i continenti. Mi riferisco in modo particolare al terrorismo che colpisce soprattutto nell’Africa sub-sahariana, ma anche in Asia e in Europa. Il mio pensiero va a tutte le vittime e ai loro familiari, che si sono visti strappare persone care da una violenza cieca, motivata da ideologiche distorsioni della religione. Peraltro, gli obiettivi di tali attacchi sono spesso proprio i luoghi di culto, in cui sono raccolti fedeli in preghiera. A tale riguardo, vorrei sottolineare che la protezione dei luoghi di culto è una conseguenza diretta della difesa della libertà di pensiero, di coscienza e di religione ed è un dovere per le Autorità civili, indipendentemente dal colore politico e dall’appartenenza religiosa.
Eccellenze, Signore e Signori,
nell’avviarmi verso la conclusione delle mie considerazioni, desidero soffermarmi ancora su un’ultima crisi, che, fra tutte, è forse la più grave: la crisi dei rapporti umani, espressione di una generale crisi antropologica, che riguarda la concezione stessa della persona umana e la sua dignità trascendente.
La pandemia, che ci ha costretto a lunghi mesi di isolamento e spesso di solitudine, ha fatto emergere la necessità che ogni persona ha di avere rapporti umani. Penso anzitutto agli studenti, che non sono potuti andare regolarmente a scuola o all’università. «Ovunque si è cercato di attivare una rapida risposta attraverso le piattaforme educative informatiche, le quali hanno mostrato non solo una marcata disparità delle opportunità educative e tecnologiche, ma anche che, a causa del confinamento e di tante altre carenze già esistenti, molti bambini e adolescenti sono rimasti indietro nel naturale processo di sviluppo pedagogico».[12] Inoltre, l’aumento della didattica a distanza ha comportato pure una maggiore dipendenza dei bambini e degli adolescenti da internet e in genere da forme di comunicazione virtuali, rendendoli peraltro più vulnerabili e sovraesposti alle attività criminali online.
Assistiamo a una sorta di “catastrofe educativa”. Vorrei ripeterlo: assistiamo a una sorta di “catastrofe educativa”, davanti alla quale non si può rimanere inerti, per il bene delle future generazioni e dell’intera società. «Oggi c’è bisogno di una rinnovata stagione di impegno educativo, che coinvolga tutte le componenti della società»,[13] poiché l’educazione è «il naturale antidoto alla cultura individualistica, che a volte degenera in vero e proprio culto dell'io e nel primato dell’indifferenza. Il nostro futuro non può essere la divisione, l’impoverimento delle facoltà di pensiero e d’immaginazione, di ascolto, di dialogo e di mutua comprensione».[14]
I lunghi periodi di confinamento hanno però anche consentito di trascorrere più tempo in famiglia. Per molti si è trattato di un momento importante per riscoprire i rapporti più cari. D’altronde, matrimonio e famiglia «costituiscono uno dei beni più preziosi dell’umanità»[15] e la culla di ogni società civile. Il grande Papa San Giovanni Paolo II, di cui lo scorso anno abbiamo celebrato il centenario della nascita, nel suo prezioso magistero sulla famiglia ricordava: «Di fronte alla dimensione mondiale che oggi caratterizza i vari problemi sociali, la famiglia vede allargarsi in modo del tutto nuovo il suo compito verso lo sviluppo della società» e lo assolve anzitutto «offrendo ai figli un modello di vita fondato sui valori della verità, della libertà, della giustizia e dell’amore».[16] Tuttavia, non tutti hanno potuto vivere con serenità nella propria casa e alcune convivenze sono degenerate in violenze domestiche. Esorto tutti, autorità pubbliche e società civile, a supportare le vittime della violenza nella famiglia: sappiamo purtroppo che sono le donne, sovente insieme ai loro figli, a pagare il prezzo più alto.
Le esigenze di contenere la diffusione del virus hanno avuto ramificazioni anche su diverse libertà fondamentali, inclusa la libertà di religione, limitando il culto e le attività educative e caritative delle comunità di fede. Non bisogna tuttavia trascurare che la dimensione religiosa costituisce un aspetto fondamentale della personalità umana e della società, che non può essere obliterato; e che, nonostante si stia cercando di proteggere le vite umane dalla diffusione del virus, non si può ritenere la dimensione spirituale e morale della persona come secondaria rispetto alla salute fisica.
La libertà di culto non costituisce peraltro un corollario della libertà di riunione, ma deriva essenzialmente dal diritto alla libertà religiosa, che è il primo e fondamentale diritto umano. È dunque necessario che essa venga rispettata, protetta e difesa dalle Autorità civili, come la salute e l’integrità fisica. D’altronde, una buona cura del corpo non può mai prescindere dalla cura dell’anima.
Scrivendo a Cangrande della Scala, Dante Alighieri sottolinea il fine della sua Commedia: «Allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità».[17] Tale, sebbene con ruoli e in ambiti differenti, è pure il compito tanto delle autorità religiose quanto di quelle civili. La crisi dei rapporti umani e, conseguentemente, le altre crisi che ho menzionato non si possono vincere se non salvaguardando la dignità trascendente di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio.
Nel ricordare il grande poeta fiorentino, di cui quest’anno ricorre il settimo centenario della morte, desidero anche rivolgere un particolare pensiero al popolo italiano, che per primo in Europa si è trovato a confrontarsi con le gravi conseguenze della pandemia, esortandolo a non lasciarsi abbattere dalle presenti difficoltà, ma a lavorare unito per costruire una società in cui nessuno sia scartato o dimenticato.
Cari Ambasciatori,
il 2021 è un tempo da non perdere. E non sarà sprecato nella misura in cui sapremo collaborare con generosità e impegno. In questo senso ritengo che la fraternità sia il vero rimedio alla pandemia e ai molti mali che ci hanno colpito. Fraternità e speranza sono come medicine di cui oggi il mondo ha bisogno, al pari dei vaccini.
Su ciascuno di voi e sui vostri Paesi invoco copiosi doni celesti, con l’augurio che quest’anno sia propizio per approfondire i vincoli di fraternità che legano l’intera famiglia umana.
Grazie!
[3] J. Donne, Meditazione XVII, in: Devozioni per occasioni d’emergenza, Editori Riuniti, Roma 1994, 112-113.
[4] Lettera per l’evento “Economy of Francesco” (1° maggio 2019).
[5] S. Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 6.
[6] Cfr Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo (25 novembre 2014).
[7] Radiomessaggio ai popoli del mondo intero, 24 dicembre 1944.
[8] Messaggio alla Conferenza dell’ONU per la negoziazione di uno strumento giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi nucleari(23 marzo 2017): AAS 109 (2017), 394-396; Lett. enc. Fratelli tutti, 262.
[10] S. Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 60.
[11] Angelus, 1° gennaio 2021.
[12] Videomessaggio in occasione dell’Incontro “Global compact on education. Together to look beyond” (15 ottobre 2020).
[15] S. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 1.
[17] Epistola XIII, 39.
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