CELEBRAZIONE LITURGICA PER IL GIUBILEO DELLE COMUNITÀ
CON PERSONE HANDICAPPATE
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Sabato, 31 marzo 1984
1. “La moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un’anima sola . . . tutto era fra loro comune . . . tutti erano ben voluti da tutti . . . non vi era alcun bisognoso tra loro” (At 4, 32-34).
Il brano degli Atti degli Apostoli, che abbiamo letto, ci ha descritto la comunità cristiana primitiva, costituitasi attorno agli Apostoli, i quali “rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù con grande efficacia” (At 4, 33). È un quadro vivace di unità e solidarietà fraterna, così necessarie allo sviluppo della cristianità nascente. Anche noi oggi, qui riuniti attorno all’altare per celebrare l’Eucaristia, culmine, fonte e centro della vita cristiana, desideriamo formare una vera comunità di fratelli, alcuni dei quali sono colpiti da condizioni di particolare sofferenza, e altri sono a loro vicini per motivi di affettuosa assistenza.
Tutti noi vogliamo realizzare “un cuor solo e un’anima sola” nella disponibilità ad accogliere la parola di Dio, che ci interpella anche a riguardo del problema specifico di questi nostri fratelli handicappati, invitandoci alla conversione e alla riconciliazione, obiettivo primario di questo Anno Santo della Redenzione.
Sì, vogliamo essere una comunità cristiana alimentata dal vigore del pane di vita, riunita attorno al Vescovo di Roma e successore di Pietro, per ricevere abbondantemente la grazia del Giubileo, che è anzitutto dono ineffabile di Dio, pieno incontro con la sua misericordia e col suo amore rinnovatore. A tale grazia corrisponde in noi una precisa responsabilità: tradurre il dono di Dio in condivisione solidale, in amore verso questi nostri fratelli e sorelle colpiti da handicap. Così questa giornata dovrà essere caratterizzata dalla volontà di costruire uno stile di vita comunitario, anzi fraterno, sensibile alle esigenze della giustizia e della solidarietà.
Lasciando alle spalle i nostri egoismi, le nostre remore, i nostri timori e chiedendo perdono per tutto ciò, vogliamo riconciliarci veramente con Dio e con i nostri fratelli più deboli, e anche con le loro più vive necessità, comprendendole cioè e facendole proprie.
2. Cari amici sofferenti, questo vostro pellegrinaggio è certamente il più caro al mio cuore. Voi rappresentate la Chiesa che soffre e che accetta con totale fiducia la volontà di Dio, nel disegno misterioso della redenzione attuatasi per mezzo della croce e della risurrezione. Ricevete il mio saluto più cordiale e il mio abbraccio.
Insieme con voi desidero salutare i vostri accompagnatori e organizzatori del pellegrinaggio, tutti i rappresentanti dei gruppi parrocchiali, delle scuole, delle fabbriche, delle cooperative, delle associazioni e istituzioni dove voi siete inseriti e ricevete cure e assistenza e soprattutto aiuto per una valida integrazione. Saluto anche le delegazioni provenienti da diverse città d’Italia e da importanti centri europei. Dirigo a tutti il mio vivo e affettuoso ringraziamento.
3. Voi vi siete riuniti per sottolineare il messaggio salvifico e universale della redenzione, che, operata da nostro signore Gesù Cristo diciannove secoli e mezzo fa, è tuttora presente ed efficace, soprattutto mediante il sacrificio eucaristico; voi siete venuti per annunziare e testimoniare al mondo intero che non esiste una storia solamente profana, bensì l’unica “storia della salvezza” che si svolge attorno alla croce e alla risurrezione di Cristo.
Le vostre attese, pur passando attraverso il mistero del dolore innocente, sono rivolte verso la risurrezione dell’uomo intero, verso la liberazione anzitutto dai condizionamenti del peccato, ma anche da quelli della malattia e di ogni forma di menomazione fisica e psichica.
E qual è la risposta di Cristo alle vostre attese? Egli le deluderà? Cristo Gesù offre la salvezza totale dell’uomo e in tal senso si deve intendere l’annuncio profetico ed escatologico di Isaia che abbiamo ascoltato: “(Dio) stesso viene a salvarvi. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi . . . e le orecchie dei sordi, lo zoppo salterà come un cervo, la lingua del muto eleverà canti di trionfo, poiché sorgenti di acqua sgorgheranno nel deserto e ruscelli scorreranno nella steppa” (Is 35, 4-6). È tutta un’esplosione di gioia, espressa con vive immagini, di fronte alla salvezza del resto di Israele tornato dalla schiavitù a far rifiorire la terra promessa; ed è al tempo stesso un’esplosione di gioia nella prospettiva della consumazione della salvezza che opererà il Figlio di Dio Gesù Cristo, mediante l’opera della redenzione.
Egli darà compimento anche letterale alla parola di Isaia, come è testimoniato dal brano evangelico ora letto. “Figlio, ti sono rimessi i tuoi peccati” (Mc 2, 5), dice Gesù al paralitico; in risposta poi ai suoi muti accusatori Gesù soggiunge: “Affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha potere in terra di rimettere i peccati, dico a te: alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua” (Mc 2, 10-11). Gesù realizza, quale messia, redentore e signore, quanto il profeta ha preannunciato; Gesù che percorreva tutta la Galilea predicando la buona novella del regno e “curando ogni sorta di malati e infermità del popolo” (Mt 4, 12-33).
L’annuncio del regno di Dio - che fa appello alla fede, chiama alla conversione e induce all’amore - è accompagnato da autentiche manifestazioni di questo amore per la sorte dei più deboli e bisognosi. Il regno di Dio tende alla pienezza dell’incontro dell’uomo col suo Creatore e Padre, ma la fede nella reale possibilità di tale incontro è suscitata dalle opere dell’amore: “Affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di rimettere i peccati . . . dico a te: alzati”.
4. La salvezza totale che Cristo Gesù ha offerto all’uomo, e che ha avuto manifestazioni miracolose tanto evidenti durante la sua giornata terrena, continua ad essere operante anche oggi, in questo finale del secondo millennio dell’era cristiana?
Dobbiamo dire: sì. Dio è fedele a se stesso e alle sue promesse. Tocca a noi, Chiesa, comunità messianica, continuare tale opera di redenzione totale compiuta dal Signore, operando con fede perché i nostri fratelli più deboli - qualunque sia la loro minorazione - siano sollevati e anche liberati dalle loro pesanti situazioni.
La prospettiva della salvezza totale operata da Cristo, merita, in questo momento sacro, un ulteriore, breve approfondimento.
L’opera redentrice di Cristo passa misteriosamente attraverso la croce, alla quale tutti siamo chiamati a partecipare, nessuno escluso; croce che si erge così evidente sulle membra di questi nostri fratelli sofferenti. Non si comprende la salvezza totale senza la croce, accettata per amore e quale espressione - la più alta - dell’amore. È quanto ho già detto nella Lettera Apostolica Salvifici Doloris (cf. Ioannis Pauli PP. II, Salvifici Doloris, n. 13). Tutti, non solo i fratelli e le sorelle colpiti da handicap, siamo chiamati ad accogliere la croce e abbiamo ciascuno la croce: “Chi non porta la propria croce . . . non può essere mio discepolo” (Lc 14, 27), dice Gesù.
Nell’accettazione della croce, la sofferenza cambia segno, essa assume il suo pieno significato: quello gioioso dell’amore. Un aiuto fondamentale che dobbiamo offrire ai nostri fratelli e sorelle sofferenti è quello di essere noi credibili mediante opere di amore, affinché essi siano aiutati ad accettare il misterioso disegno divino sulla loro croce.
5. La croce, a sua volta, contiene un intrinseco e insopprimibile orientamento verso la vittoria della risurrezione. La meta della salvezza redentrice è il recupero dell’intero essere umano: spirituale e fisico, dell’anima e del corpo. Così sarà nella fase definitiva del regno di Dio.
Da qui nasce l’urgenza imprescindibile dell’impegno del cristiano per anticipare la pienezza di vita e di gioia che costituirà l’esperienza dell’eternità.
Come anticipare tale pienezza di vita e di gioia, tale vittoria sulla sofferenza anche nel corpo?
Ciò si realizza anzitutto nell’unione degli animi e dei cuori, nella effettiva condivisione della sofferenza . . . Ascoltiamo in proposito la voce dell’apostolo Paolo: “Accoglietevi . . . gli uni gli altri come Cristo accolse voi” (Rm 15, 7); “Portate i pesi gli uni degli altri” (Gal 6, 2). Bisogna che noi portiamo realmente tali pesi, se vogliamo essere cristiani, altrimenti rischiamo di vanificare, in situazioni concrete, la parola di Dio sulla sofferenza, che difficilmente potrà essere accettata da chi ne è segnato in profondità. È necessario creare con i nostri fratelli colpiti da handicap un clima di vero amore, un rapporto di intensa e non sfuggente condivisione.
L’amore trasfigura, l’amore fa accogliere, l’amore rende possibile anzitutto il miracolo della trasformazione del cuore, dell’interiorizzazione del disegno divino sulla sofferenza. Questi nostri fratelli e sorelle devono sentirsi effettivamente tali in mezzo a noi e non solo degli assistiti. A questo riguardo, le comunità cristiane devono offrire segni evidenti di credibilità, affinché i fratelli colpiti da handicap non si sentano estranei nella casa comune che è la Chiesa. L’amore per loro deve essere genuino, personale, diretto. Non ci si può prendere cura di questi nostri fratelli per altri fini - che facilmente possono subintrodursi - che non siano quelli del loro solo bene, della soddisfazione delle loro giuste attese.
6. Le giuste attese dei nostri fratelli: ecco un altro passo da compiere per anticipare quaggiù quella pienezza di vita e di gioia, quella vittoria sulla sofferenza di cui ho fatto sopra cenno. In sintesi, la giusta attesa preminente dei nostri fratelli è la seguente: l’integrazione equilibrata ma effettiva nella trama della convivenza civile, per sentirsi in essa membri a pieno titolo. Non consideriamo l’handicap come un fatto drammatico e innaturale - ciò non serve che a scoraggiare e a discriminare - ma piuttosto come una condizione di debolezza che si traduce per la società cristiana e civile in una prova del suo livello di fede e di umanità.
Quelli dei colpiti da handicap sono bisogni normali di soggetti da certi punti di vista più deboli, ma sempre persone che aspirano alla propria valorizzazione piena. Esse, sostenute con efficacia, possono fare emergere in sé eccezionali energie e valori di grande utilità per l’intera comunità. L’integrazione nel tessuto civile dovrà essere indirizzata in maniera preferenziale ad alimentare nei nostri fratelli e sorelle quella fiducia e quel coraggio che permetta loro di diventare artefici attivi della propria promozione.
Questi accennati sopra sono principi generali da tradursi in linee operative individuate con tanto amore, come è dimostrato dagli sforzi già compiuti. La Santa Sede, su detti argomenti, ha pubblicato un importante documento nel 1981, anno internazionale dell’handicappato, al quale sarà bene riportarsi con frequenza per instaurare un’azione efficace. È necessario riconoscere con i fatti che la persona handicappata è soggetto pienamente umano con diritti sacri e inviolabili; che essa deve essere facilitata a partecipare alla vita della società in ogni dimensione accessibile; che la qualità di una società si misura dal rispetto che essa manifesta verso i più deboli dei suoi membri.
7. Quanto abbiamo finora detto è consequenziale con la parola di Dio.
La grazia dell’Anno Santo è grazia di riconciliazione con Dio e con i fratelli: con questi fratelli e le loro necessità. Lasciamoci riconciliare con Dio (cf. 2 Cor 5, 20) e chiediamo aiuto in questa celebrazione eucaristica, per tradurre in opere la parola divina. Il compito può sembrare arduo ma abbiamo così pregato col salmo responsoriale: “Signore, mia forza, accorri in mio aiuto” (Sal 22, 20). Il Signore - dobbiamo esserne certi - non è lontano dalle nostre fatiche; egli è la nostra forza e il nostro aiuto; egli vuol concederci la grazia di annunziare con le opere il suo nome ai nostri fratelli più deboli e di lodarlo insieme a loro in mezzo all’assemblea: la lode del nostro impegno di amore. Tutti voi, animati da propositi santi “il Dio della speranza riempia di ogni gioia e pace nella fede” (Rm 15, 13). Amen.
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