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CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA CON I VESCOVI ITALIANI
RIUNITI IN ASSEMBLEA GENERALE

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Martedì, 20 maggio 1986

 

1. “. . . Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno” (At 4, 10). È precisamente nel nome di Gesù Cristo, cari e venerati fratelli, che noi siamo oggi raccolti intorno all’altare per celebrare, in comunione di sentimenti, il sacrificio eucaristico. Ci unisce il medesimo amore a Cristo e alla Chiesa. Nel suo nome, rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto, nel quale vorrei sentiste vibrare il profondo affetto che nutro per voi. Condivido con tutto il cuore il vostro ministero e la vostra sollecitudine, le vostre difficoltà e le vostre speranze, le vostre sofferenze e le vostre gioie. E desidero esprimervi il mio apprezzamento per il vostro zelo pastorale e per le molteplici iniziative apostoliche che, come singoli e come Conferenza, siete andati assumendo in questi anni. E vi sono al tempo stesso grato per le tante dimostrazioni di profonda comunione col successore di Pietro.

Mi piace sottolinearlo in questa circostanza che ci vede raccolti “ad cathedram Sancti Petri”, in questa patriarcale basilica verso la quale ogni giorno dirigono i loro passi pellegrini di ogni parte del mondo, per confessare, accanto alle sacre reliquie dell’apostolo, la loro fede nella Chiesa da Cristo fondata su Pietro. Domina su di noi l’immagine della divina Colomba che, dall’alto della vetrata, fra gli ori della “gloria” del Bernini, sembra voler discendere sulla nostra assemblea, portatrice di luce e di conforto.

2. Verso il divino Spirito si leva la preghiera, che sgorga dai nostri cuori in quest’ora particolarmente solenne; verso di lui si protende il nostro animo, consapevole delle difficoltà con cui deve misurarsi la Chiesa che è in Italia; da lui implora l’effusione di quei doni di sapienza e di intelligenza, di consiglio e di fortezza, di conoscenza e di timore del Signore, che sono indispensabili per guidare opportunamente il gregge del Signore.

Seguendo la parola di Dio dell’odierna Liturgia, desideriamo che nella nostra assemblea riviva quella costituita dagli apostoli nel giorno della Pentecoste e prima ancora quella del Giovedì santo. L’assemblea che si formò in quella sera intorno alla tavola della cena eucaristica, mentre Cristo pronunciava il suo discorso d’addio: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore . . . per sempre” (Gv 14, 16).

Cristo chiama dunque lo Spirito “il Consolatore”. Il termine greco è “parakletos”, che vuol dire anche “intercessore” o “avvocato”. Gesù lascia lo Spirito come l’“altro consolatore”, il secondo perché egli stesso, Gesù, è il primo consolatore, avendo portato per primo la buona novella. Lo Spirito Santo viene dopo la sua ascensione al cielo e grazie a lui per continuare mediante la Chiesa, la diffusione della buona novella nel mondo.

3. Così dunque Cristo non lascia i suoi apostoli orfani. E neppure noi lascia orfani. Che cosa significa essere orfani? Significa non aver più i genitori. Non aver padre. Noi invece abbiamo un Padre. L’abbiamo in modo mirabile, anche dopo la dipartita di Cristo, poiché Cristo è nel Padre suo e noi, essendo in lui, come lui è in noi, grazie all’opera dello Spirito Santo (cf. Gv 14, 22), possiamo sentirci in Cristo veri figli di quel Padre.

Abbiamo il Padre mediante la partecipazione al Mistero trinitario, quali figli nel Figlio. Abbiamo il Padre e vogliamo far parte di questa nostra ricchezza alla gente, ai fratelli e alle sorelle che vivono in Italia e nel mondo.

4. Abbiamo dunque il Padre per opera dello Spirito Santo, il Consolatore, e questa nostra sacra “eredità” è la risposta definitiva a tutte le carenze, inquietudini e povertà del “mondo”. Al tempo stesso, questa “eredità” è causa del nostro contrasto nei confronti del mondo, perché, come ci ha ricordato Gesù nel brano evangelico poc’anzi proclamato, “lo Spirito di verità il mondo non lo può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv 14, 17).

Vi è qui, a ben guardare, la spiegazione più radicale delle situazioni di agnosticismo, di secolarismo o, addirittura, di ateismo da cui, con motivazioni e manifestazioni diverse, è travagliato il mondo odierno. Bisogno di un Padre, per non sentirsi orfani; rifiuto del vero Padre in Cristo, per l’incapacità di accogliere il dono dello Spirito di verità, che solo può portare al riconoscimento del Padre celeste. Così dunque la nostra missione apostolica si svolge all’interno di questo fondamentale contrasto: contrasto col mondo “a causa” dello Spirito di verità.

5. Tale missione ci è stata trasmessa dagli apostoli. Cristo non nascose ai suoi apostoli questo “contrasto”. Egli presentò anzi se stesso come primo “segno” di contrasto e di contraddizione. Contemporaneamente, però, egli sta dinanzi a noi come “luce per illuminare le genti” (Lc 2, 32). La missione che in lui ha il suo inizio e la sua sorgente è missione salvifica.

Gli apostoli, che uscirono dal cenacolo nel giorno di Pentecoste, avevano piena conoscenza di essere portatori di tale missione salvifica. Ne fanno fede le parole che abbiamo ascoltato da Pietro nella prima Lettura. Il Libro degli Atti lo presenta mentre “pieno di Spirito Santo” parla ai “capi del popolo” e agli “anziani”. Egli parla come rappresentante di quel primo nucleo di Chiesa, che lo Spirito ha spinto fuori del cenacolo e indotto ad affrontare il confronto col mondo.

Lo spunto è la guarigione di uno storpio, ma la vera posta in gioco è l’atteggiamento che occorre assumere di fronte a Cristo. Le parole di Pietro sono decise e solenni: “Gesù è la pietra che, scartata da voi costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At 4, 11-12).

6. Cristo è, dunque, la “pietra angolare” di questa missione salvifica. Una pietra che i “costruttori” hanno “scartato”. Non solo quelli del passato, ma anche molti che vogliono essere i “costruttori” dei tempi nostri. Eppure resta vero, oggi come ieri, che “in nessun altro c’è salvezza”. Non è il caso di avere complessi nell’affermarlo. Non ne ha avuti Pietro. Non ne hanno avuti i santi nel corso della storia. Non ne ebbe, in particolare, il santo di cui oggi facciamo memoria: quel san Bernardino da Siena che seppe portare in tante città della penisola la devozione al nome di Cristo, accendendo nelle anime il fuoco dell’amore per lui. In Cristo solo c’è salvezza. È una consapevolezza che la Chiesa ha ereditato - e noi con essa - dagli apostoli. Questa consapevolezza si è manifestata nel Concilio Vaticano II, ove è ricordato che la Chiesa “è spinta dallo Spirito Santo a cooperare perché sia eseguito il piano di Dio, il quale ha costituito Cristo principio della salvezza per il mondo intero” (Lumen Gentium, 17).

Mossi da questa medesima consapevolezza voi vi siete raccolti per questa vostra assemblea, nel corso della quale vi soffermerete a riflettere in particolare sul tema: “Comunione e comunità missionaria”. Voi vi interrogherete cioè su quali impegni comporti in concreto, per la Chiesa che è in Italia, la missione di annunciare Cristo “pietra angolare”, sulla quale soltanto si può edificare l’autentica salvezza dell’uomo.

7. “Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno . . . costui vi sta innanzi sano e salvo” (At 4, 10). Della salute dell’uomo dunque si tratta, del suo vero bene. Diverse sono le malattie, diverse le infermità che insidiano la salute dell’uomo, delle comunità, delle nazioni. Vi sono le malattie del corpo, vi sono le malattie dello spirito. Su queste ultime si è soffermato con particolare preoccupazione il vostro presidente, il card. Poletti, nella sua prolusione sottolineando il “triste spettacolo di dilagante immoralità, con manifestazioni oggi insidiosamente allettanti e persuasive, perché accettate come innocue e naturali”.

Questi giorni di riflessione vi consentiranno di fare una diagnosi accurata delle malattie spirituali più insidiose e di tracciare le linee dell’opportuna terapia. Certo, quanto accade ogni giorno sotto i nostri occhi conferma che la questione etica è sempre più questione centrale del nostro tempo così che sempre più urgente si fa l’esigenza di una mobilitazione di tutte le forze sane della nazione per fronteggiare le spinte autodistruttive che la minacciano.

8. Una cosa, tuttavia, è certa; per lenire le molteplici ferite dell’uomo moderno e per curare le infermità di cui soffre non v’è altro modo che quello di farci guidare dall’amore. Quell’amore che Cristo qualificò come il “comandamento mio”.

È necessario che ogni nostra iniziativa sia suggerita, animata, orientata nella sua progressiva esecuzione dall’amore: l’amore verso Cristo e l’amore verso l’uomo. Con questo amore dobbiamo tornare costantemente a tutti i problemi “dolorosi” dell’uomo, anche se si cerca di “cacciarci via” da essi o ci si “deride”.

Non dobbiamo lasciarci scoraggiare dalla propaganda che viene fatta dai diversi apparenti programmi di risanamento, nell’illusione di rendere felice l’uomo riducendo in vari modi ciò che l’uomo veramente è . . . La carità è paziente. In questo consiste la fortezza dell’amore, che Cristo ci ha insegnato.

9. Pertanto siamo qui riuniti con grande fede in Cristo, guidati dal suo Spirito. “Anche chi crede in me, compirà le opere che io compio” (Gv 14, 12), nonostante la nostra totale indegnità, nonostante la nostra umana debolezza. Anche gli apostoli erano uomini deboli. Anche Pietro era uomo debole.

Ci riuniamo quindi pieni di umiltà, con la preghiera nel cuore e sulle labbra: “Qualunque cosa chiederete nel nome mio . . .” (Gv 14, 13) nel nome di Gesù il Nazareno!

Siamo riuniti fiduciosi che, mediante la preghiera, Maria è presente nella nostra assemblea - così come nel giorno della Pentecoste - lei, la Madre del nostro Signore, Maria, “Mater Ecclesiae”, resti con noi oggi e sempre. Lei, la Madre della Chiesa. Anche grazie alla sua materna presenza noi non ci sentiamo orfani.

 

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