PELLEGRINAGGIO APOSTOLICO IN FRANCIA
DISCORSO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
IN OCCASIONE DEL RITIRO SPIRITUALE
PER I SACERDOTI, I DIACONI E I SEMINARISTI
Cripta di Ars (Francia), 6 ottobre 1986
I. Più il popolo cristiano prende coscienza della propria dignità, più sente il bisogno di sacerdoti che siano veramente sacerdoti
Dopo la prima lettura, Gv 20,19-23:
1. “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi . . . Ricevete lo Spirito Santo”.
Cari fratelli, è Cristo che ci sceglie, ci manda come è stato mandato dal Padre, e ci comunica lo Spirito Santo. Il nostro sacerdozio si radica nelle missioni delle persone divine, nel loro Dono reciproco nel cuore della santa Trinità. “La grazia dello Spirito Santo . . . continua a essere trasmessa per mezzo dell’ordinazione episcopale. Poi, per mezzo del sacramento dell’Ordine, i vescovi rendono partecipi di questo dono spirituale i ministri consacrati”. I sacerdoti partecipano a questa grazia e anche i diaconi.
La nostra missione è una missione di salvezza. “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3, 17). Gesù ha predicato la buona novella del Regno; ha scelto e formato i propri apostoli; ha adempiuto tramite la croce e la risurrezione l’opera della redenzione; al seguito degli apostoli, noi siamo associati in modo particolare alla sua opera di salvezza, al fine di renderla presente ed efficace ovunque nel mondo. San Giovanni-Maria Vianney arrivava a dire: “Senza il sacerdote, la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il sacerdote che continua l’opera della redenzione sulla terra” (Giovanni-Maria Vianney, curato d’Ars. il suo pensiero, il suo cuore, presentati dall’abate Bernard Nodet, Le Puy, 1958, p. 100; d’ora in poi: Nodet). Ciò che noi dobbiamo realizzare, non è dunque la nostra opera, è il disegno del Padre, è l’opera di salvezza del Figlio. Lo Spirito Santo si serve del nostro spirito, della nostra bocca, delle nostre mani. In particolare è nostro compito proclamare incessantemente la Parola per evangelizzare; tradurla in modo da toccare i cuori, senza alterarla né sminuirla; e di ripetere il gesto di offerta di Gesù nell’ultima cena, i suoi gesti di perdono verso i peccatori.
2. Non è solo un compito che abbiamo ricevuto, una funzione qualificata da adempiere al servizio del popolo di Dio. Qualcuno può parlare del sacerdozio come di un mestiere, di una funzione, ivi compresa la funzione di presidenza del raduno eucaristico. Ma noi non veniamo ridotti a esserne dei funzionari. Innanzitutto perché è nel nostro stesso essere che, attraverso l’ordinazione, siamo segnati da un carattere speciale che ci configura a Cristo sacerdote onde renderci capaci d’agire in nome del Cristo capo in persona. Certo, siamo presi in mezzo agli uomini e restiamo loro vicini, “cristiani in mezzo a loro”, diceva sant’Agostino. Ma noi siamo “messi a parte”, totalmente, consacrati all’opera della salvezza. “La funzione dei presbiteri in quanto strettamente vincolata all’ordine episcopale partecipa dell’autorità con la quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio corpo” (Presbyterorum Ordinis, 2-3). È il Concilio Vaticano II a ricordarcelo.
Noi siamo contemporaneamente in seno all’assemblea cristiana e di fronte a essa, a significare che l’iniziativa della santificazione viene da Dio, dal capo del corpo, e che la Chiesa la riceve. Mandati in nome di Cristo, noi siamo stati santificati da lui a titolo specifico: questo permane e tocca in profondità il nostro essere di battezzati. Il curato d’Ars aveva su questo argomento delle formule pregnanti: “È il sacerdote che Dio pone sulla terra come un altro mediatore tra il Signore e il povero peccatore” (Nodet, 99), oggi diremmo: egli partecipa in modo specifico alla missione dell’unico Mediatore, Gesù Cristo.
Ciò comporta una conseguenza nella nostra vita d’ogni giorno. È normale che noi cerchiamo continuamente di conformare a Cristo, di cui siamo i ministri, non solo gli atti del ministero, ma i nostri pensieri, l’attaccamento del nostro cuore, la nostra condotta, quali discepoli che arrivano a incarnare i misteri della sua vita, come diceva padre Chevrier. Questo evidentemente presuppone una vera intimità con Cristo, nella preghiera. Tutta la nostra persona e tutta la nostra vita rimandano a Cristo. “Imitamini quod tractatis”. Tutti i battezzati sono chiamati alla santità, ma la nostra consacrazione e la nostra missione ci impongono un dovere particolare di tendervi, sia che siamo secolari o religiosi, attraverso le ricchezze inerenti al nostro sacerdozio e le esigenze del nostro ministero in seno al popolo di Dio.
Certo, i sacramenti devono la loro efficacia a Cristo e non alla nostra dignità. Noi siamo i suoi strumenti, poveri e umili, che non devono attribuirsi il merito della grazia trasmessa, ma strumenti responsabili, e, attraverso la santità del ministro, le anime sono meglio disposte a cooperare alla grazia. Vediamo esattamente nel curato d’Ars un sacerdote che non si è accontentato di compiere esteriormente i gesti della redenzione; egli vi ha partecipato nel suo stesso essere, nel suo amore di Cristo, nella preghiera costante, nell’offerta delle sue prove o delle sue mortificazioni volontarie. Lo dicevo già ai sacerdoti a Notre-Dame di Parigi, il 30 maggio 1980: “Il curato d’Ars rimane per tutti i paesi un modello incomparabile, allo stesso tempo dell’adempimento del ministero e della santità del ministro”.
3. Questo significa dirvi, cari amici, che a buon diritto possiamo ammirare lo splendore del sacerdozio ministeriale, come pure la vocazione religiosa, perché vi è un certo rapporto tra le due cose. Conoscete le parole del curato d’Ars: “Che gran cosa essere sacerdote! Se il sacerdote stesso lo capisse, ne morirebbe” (Nodet, 99).
Che meraviglia è in effetti esercitare, quali vescovi o quali sacerdoti, la nostra triplice missione sacerdotale, indispensabile alla Chiesa: 1) quella di annunciatore della buona novella: far conoscere Gesù Cristo; porsi in rapporto autentico con lui; vegliare sull’autenticità e la fedeltà della fede, perché non abbia dei cedimenti, non sia né alterata, né sclerotizzata; e anche mantenere nella Chiesa lo slancio evangelizzatore, formare allo apostolato; 2) quella di dispensatore dei misteri di Dio: renderli presenti in modo autentico, in particolare il mistero pasquale attraverso l’Eucaristia, e il perdono; permettere ai battezzati di accedervi, e prepararli ad essa. A tali ministeri, i laici non potranno mai esser delegati; è necessaria un’ordinazione sacerdotale, che consenta d’agire in nome di Cristo-Capo; 3) quella infine di pastore: costruire e mantenere la comunione tra i cristiani, nella comunità che ci è affidata, insieme alle altre comunità diocesane, tutte in collegamento col successore di Pietro. Prima di essere specializzato, in funzione delle sue competenze personali e in accordo col suo vescovo, il sacerdote è infatti il ministro della comunione: in una comunità cristiana che rischia spesso di disintegrarsi o di chiudersi, egli assicura allo stesso tempo il raduno della famiglia di Dio e la sua apertura. Il suo sacerdozio gli conferisce il potere di guidare il popolo sacerdotale (cf. Lettera del Giovedì Santo 1979, n. 5)
4. L’identità specifica del sacerdote appare così chiaramente. Del resto, dopo i dibattiti degli ultimi vent’anni, essa è ora sempre meno discussa. Ma il numero molto esiguo di sacerdoti e di ordinazioni sacerdotali in molti paesi potrebbe portare taluni fedeli o anche sacerdoti a rassegnarsi a questa carenza, col pretesto che si è meglio riscoperto e messo in pratica il ruolo dei laici È vero che il Concilio ha felicemente ricollocato il sacerdozio ministeriale nella prospettiva della missione apostolica di tutto il popolo di Dio. Esso ha evitato che se ne faccia un arricchimento “fine a se stesso”, distaccato da questo popolo. Ha messo in rilievo il compito primordiale di annunciare la Parola che prepara il terreno alla fede, e dunque ai sacramenti. Ha meglio articolato il sacerdozio del prete a quello del vescovo, e mostrato il suo rapporto col ministero ordinato dei diaconi e col sacerdozio comune di tutti i battezzati grazie al quale tutti possono e devono avere accesso alle ricchezze della grazia (adozione filiale, vita di Cristo, Spirito Santo, sacramenti), fare della loro vita un’offerta spirituale, testimoniare quali discepoli di Cristo nel mondo, e assumere il loro ruolo dell’apostolato e dei servizi della Chiesa.
Ma appunto, affinché esercitino pienamente questo ruolo profetico sacerdotale e regale, i battezzati hanno bisogno del sacerdozio ministeriale, attraverso il quale viene loro trasmesso in modo privilegiato e tangibile il dono della vita divina ricevuto da Cristo, capo di tutto il corpo. Più il popolo è cristiano e prende coscienza della propria dignità e del proprio ruolo attivo nella Chiesa, più sente il bisogno di sacerdoti che siano veramente sacerdoti. E lo stesso vale nelle regioni scristianizzate e negli ambienti sociali isolati dalla Chiesa (cf. discorso a Notre-Dame di Parigi, 30 maggio 1980, n. 3). Laici e sacerdoti non potranno mai rassegnarsi a veder ridotto il numero delle vocazioni sacerdotali e delle ordinazioni come è oggi il caso in molte diocesi. Questa rassegnazione sarebbe un cattivo segno per la vitalità del popolo cristiano, sarebbe pericolosa per il suo avvenire e per la sua missione. E sarebbe ambiguo, col pretesto di far fronte con realismo al prossimo futuro, organizzare le comunità cristiane come se esse potessero fare in grandissima parte a meno del ministero sacerdotale. Domandiamoci invece se facciamo tutto il possibile per ravvivare nel popolo cristiano la coscienza della bellezza e della necessità del sacerdozio, per risvegliare le vocazioni, incoraggiarle e farle maturare. Sono felice di sapere che i vostri servizi delle vocazioni prendono nuove iniziative per rilanciare l’appello. Non stanchiamoci di far pregare perché il Padrone della messe mandi operai.
Cari confratelli, rimaniamo modesti e umili, perché si tratta di una grazia del Signore ricevuta per il servizio degli altri, della quale non siamo mai veramente degni. Il curato d’Ars diceva: “Il sacerdote non è per sé, è per voi” (Nodet, 102). Tuttavia, come lui, non cessiamo mai di ammirare la grandezza del nostro sacerdozio e di rendere grazie ad ogni istante. E possiate voi, cari seminaristi, aspirare ancor più, nella gioia e nella speranza, a questo altissimo servizio al Signore e alla sua Chiesa!
Signore,
come l’apostolo Pietro,
noi tutti abbiamo avvertito,
nel segreto della nostra vita,
l’appello a lasciare le sponde tranquille
per andare al largo,
a lasciare le reti
di un mestiere umano
per essere pescatori di uomini;
attraverso la Chiesa tu ci hai chiamati,
consacrati, unti del tuo Spirito,
e mandati dinanzi a te
per agire in tuo nome,
al servizio di tutti i membri
del popolo di Dio,
affinché essi ricevano sempre più
il tuo messaggio e la tua vita divina;
fa’ che dimoriamo incessantemente
nell’azione di grazia
e attenti a conformare
tutta la nostra vita
alla santità di questo ministero,
tu che vivi col Padre e lo Spirito Santo,
nei secoli dei secoli.
II. Convertire, guarire, salvare: tre parole-chiave della nostra missione
Dopo la seconda lettura, 1 Cor 9, 16-23 e 2 Cor 5, 14-6,2:
5. “Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli” (1 Cor 9, 22).
La parola salvezza è una di quelle che tornano più spesso nel curato d’Ars. Che significa per lui? Essere salvato significa essere liberato dal peccato che allontana da Dio, inaridisce il cuore e rischia di separare dall’amore di Dio per sempre, il che sarebbe la più grande disgrazia. Esser salvato è vivere unito a Dio, è vedere Dio. Esser salvato è anche essere reintrodotto in una vera comunione con gli altri, perché i nostri peccati, molto spesso, consistono nel ferire l’amore del prossimo, la giustizia, la verità, il rispetto dei propri beni e del proprio corpo, i propri diritti umani, tutto questo è contrario alla volontà di Dio. E vi è una solidarietà profonda tra tutte le membra del corpo di Cristo: non lo si può amare, lui, senza amare i propri fratelli. La salvezza permette dunque di ritrovare un rapporto filiale con Dio e fraterno con gli altri.
La redenzione di Cristo ha aperto a tutti la possibilità della salvezza. Il sacerdote coopera alla redenzione, vi dispone le anime predicando la conversione, dando il perdono. È per la loro salvezza che il curato d’Ars ha voluto essere sacerdote: “Guadagnare anime al buon Dio”, dichiarava annunciando la propria vocazione, a diciotto anni, così come san Paolo diceva: “Guadagnarne il maggior numero”.
È per questo che Giovanni-Maria Vianney si è donato fino al limite delle forze, per questo accettava di fare penitenza, come per strappare a Dio le grazie di conversione. Per la loro salvezza temeva, piangeva. E quando era tentato di fuggire dal suo pesante incarico di curato, tornava, per la salvezza dei parrocchiani. Leggiamo in san Paolo: “L’amore del Cristo ci spinge . . . ecco ora il giorno della salvezza!”. “Il sacerdozio, diceva ancora Giovanni-Maria Vianney, è l’amore del cuore di Cristo” (Nodet, 100).
Cari confratelli, molti nostri contemporanei sembrano divenuti indifferenti alla salvezza della loro anima. Ci preoccupiamo noi abbastanza di questa perdita di fede, oppure ci rassegniamo? Certo, abbiamo ragione a insistere oggi sull’amore di Dio che ha mandato suo Figlio per salvare e non per condannare. Abbiamo ragione di puntare sull’amore piuttosto che sul timore e la paura. Del resto è anche ciò che faceva il curato d’Ars.
Inoltre, gli uomini sono liberi di aderire o meno alla fede e alla salvezza; reclamano ad alta voce questa libertà, e anche la Chiesa vuole che il loro passo sia libero da costrizioni esterne, fatto salvo l’obbligo morale per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi, di agire secondo la propria coscienza.
Infine, Dio stesso è libero dei suoi doni. La conversione è una grazia. Nell’enciclica Dominum et Vivificantem ho mostrato che solo lo Spirito Santo fa prendere coscienza della gravità del peccato, del dramma della perdita del senso di Dio, e dà il desiderio della conversione.
Ma il nostro amore per gli uomini non può rassegnarsi al fatto che essi si privino della salvezza. Noi abbiamo direttamente presa sulla conversione delle anime. Tuttavia siamo responsabili dell’annuncio della fede, della totalità della fede, e delle sue esigenze. Dobbiamo invitare i nostri fedeli alla conversione e alla santità, dire la verità, avvertire, consigliare e far desiderare i sacramenti che li ristabiliscono nella grazia di Dio! Il curato d’Ars considerava che questo fosse un ministero difficile, ma necessario: “Se un pastore resta muto vedendo Dio oltraggiato e le anime smarrirsi, male per lui”. Sappiamo con quale cura preparava le sue omelie domenicali e le sue catechesi, con che coraggio ricordava le esigenze del Vangelo, denunciava il peccato e invitava a riparare al male commesso.
Convertire, guarire, salvare: tre parole-chiave della nostra missione. Il curato d’Ars si è mostrato veramente solidale col suo popolo peccatore; ha fatto tutto per strappare le anime dal loro peccato, dalla loro tiepidezza, per riportarle all’amore: “Accordatemi la conversione della mia parrocchia, e sono pronto a soffrire ciò che vorrete, tutto il resto della vita”. Aveva, è stato detto, “una visione patetica della salvezza”; il giansenismo gli ha forse ispirato espressioni e un tono severo. Ma egli ha saputo superare questa rigorosità. Preferiva insistere sul lato attraente della virtù, sulla misericordia di Dio presso la quale i nostri peccati sono “come granelli di sabbia”. Mostrava la tenerezza del Dio offeso. I suoi appelli si inscrivono appieno nella linea degli appelli dei profeti (cf. Ef 3, 16-21), di Gesù, di san Paolo, di sant’Agostino, sull’importanza della salvezza e l’urgenza della conversione. Temeva che i sacerdoti “si intorpidissero”, si abituassero all’indifferenza dei loro fedeli. Come potremmo oggi trascurare il suo avvertimento?
6. “Lasciatevi riconciliare con Dio”. Questa frase di san Paolo definisce esattamente il ministero di san Giovanni-Maria Vianney. Egli è noto nel mondo intero come colui che confessava fino a dieci-quindici ore al giorno, o più, e questo fino a cinque giorni prima della sua morte. Non si tratta certo di trasporre alla lettera nelle nostre vite di sacerdoti il suo ritmo di confessore, tuttavia il suo atteggiamento e le sue motivazioni ci pongono vigorose domande.
Offrire il perdono alle anime pentite era l’essenziale del suo ministero di salvezza, a costo di una fatica che non cessa di impressionarci. Accordiamo noi la stessa importanza al sacramento della riconciliazione? Siamo pronti a dedicarvi del tempo? Formiamo abbastanza i fedeli a desiderarlo, a prepararsi ad esso? Cerchiamo a sufficienza i mezzi pratici nelle nostre città e nei nostri paesi per offrire loro concretamente la sua possibilità? Cerchiamo di rinnovare la celebrazione del sacramento, in conformità ai suggerimenti della Chiesa (confronto col Vangelo, preparazione comunitaria periodicamente assicurata . . .), senza cessare mai di tener presente il passo personale della confessione, perlomeno dei peccati gravi? Cerchiamo di far capire che si tratta, in quest’ultimo caso, di una condizione per partecipare all’Eucaristia e anche per celebrare degnamente il sacramento del matrimonio? Apprezziamo noi l’occasione meravigliosa che è così offerta di formare le coscienze e di guidare le anime verso un progresso spirituale?
So, cari amici, che dopo un periodo difficile, molti sacerdoti, insieme al loro vescovo, hanno tentato una ripresa. Vi incoraggio ad essa con tutte le mie forze. Era l’oggetto del documento post-sinodale Reconciliatio et Paenitentia. So anche che voi incontrate molte difficoltà: la mancanza di sacerdoti, e soprattutto la disaffezione dei fedeli al sacramento del perdono. Dite: “Da molto tempo, non vengono più a confessarsi”. È proprio questo il problema! Non nasconde questo forse una mancanza di fede, una mancanza di senso del peccato, del senso della mediazione di Cristo e della Chiesa, un disprezzo verso una pratica di cui si sono trattenute solo le deformazioni legate all’abitudine?
Notiamo che il suo vicario generale aveva detto al curato d’Ars: “Non c’è molto amore di Dio in questa parrocchia, voi ve ne metterete”. E il santo curato ha trovato anch’egli dei penitenti poco ferventi. Tuttavia, grazie al suo atteggiamento sacerdotale, alla sua santità, una folla considerevole ha afferrato l’importanza del sacramento del perdono. Grazie a quale segreto egli attirava allo stesso tempo credenti e non credenti, santi e peccatori? In realtà il curato d’Ars, che era così rude in talune predicazioni per fustigare il peccato, era, come Gesù, molto misericordioso nell’incontro con ciascun peccatore. L’abate Monnin diceva di lui: è un “focolare di tenerezza e di misericordia”. Ardeva della misericordia di Cristo.
Si tratta qui di un aspetto capitale dell’evangelizzazione. A partire dalla sera di Pasqua, gli apostoli sono mandati per rimettere i peccati. Il dono dello Spirito Santo è legato a questo potere. E il libro degli Atti ritorna incessantemente sulla remissione dei peccati, quale grazia della nuova alleanza (cf. At 2, 38; 5, 31; 10, 43; 13, 38). È il motivo conduttore della predicazione apostolica: “Lasciatevi riconciliare”.
Queste parole sono rivolte anche a noi, cari amici. Siamo fedeli ad accogliere personalmente il perdono attraverso la mediazione di un altro sacerdote?
7. È all’Eucaristia che Giovanni-Maria Vianney voleva condurre i suoi fedeli pentiti. Conoscete il posto centrale che occupava la Messa in ognuna delle sue giornate, con quanta cura vi si preparava, la celebrava. Era ben cosciente che il rinnovamento del sacrificio di Cristo era la fonte delle grazie di conversione. Insisteva anche sulla comunione invitando gli uomini dovutamente preparati a comunicarsi più spesso, contrariamente alla pastorale di quei tempi. Sapete anche che la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia lo affascinava, durante e fuori della Messa. Lo si trovava così spesso ai piedi del tabernacolo, in adorazione! E i suoi parrocchiani poveri non hanno tardato a venire essi stessi a salutare e adorare Cristo nel suo santissimo Sacramento.
Il Concilio ci ha permesso di rinnovare le nostre celebrazioni eucaristiche, di aprirle a una partecipazione comunitaria, di renderle vive, espressive, facili da seguire. Io penso che il curato d’Ars se ne rallegrerebbe. Tuttavia noi ci rendiamo conto che non tutto è progredito per il giusto cammino. Il notevole calo della pratica religiosa, dovuto a molteplici cause che non voglio qui analizzare, è un fatto molto preoccupante. I nostri fedeli devono riprendere il loro posto nella vita cristiana. Era questa una catechesi fondamentale per il curato d’Ars. D’altra parte, la dignità della celebrazione, il raccoglimento, sono valori che non sempre sono stati rispettati. Il curato di Ars teneva a creare nella propria Chiesa tutto un clima di preghiera, accessibile al popolo e tale da favorire l’adorazione, anche al di fuori della messa. Chi non desidererebbe promuovere questo gusto della preghiera silenziosa nelle nostre chiese, questo senso dell’interiorità?
Una cosa ancora ci colpisce: il curato d’Ars ha molto lavorato per ristabilire il senso della domenica, in modo da liberare le madri di famiglia e le domestiche per l’incontro eucaristico. Vi sprono a continuare a promuovere la domenica cristiana.
Vi lascio a meditare su questa grazia che ci fa il Signore di rimettere i peccati in suo nome e di offrire il suo corpo in nutrimento ai nostri fratelli e sorelle. “Salvare con Cristo”!
Preghiera: Signore Gesù Cristo, che hai dato la tua vita affinché tutti gli uomini siano salvati e abbiano la vita in abbondanza, mantieni in noi il desiderio della salvezza di tutti coloro che hai affidato al nostro ministero. Rinnova la nostra disponibilità a offrire la riconciliazione con Dio e coi loro fratelli, come san Paolo a san Giovanni-Maria Vianney. Ti rendiamo grazie per il tuo corpo e il tuo sangue che ci permetti ogni giorno di offrire per la salvezza del mondo, di ricevere in noi, di donare ai nostri fratelli e sorelle e di venerare nelle nostre chiese. Non permettere che i nostri cuori si abituino a questo dono: dacci di vedere in esso il tuo amore estremo, come il curato d’Ars. Tu che regni col Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli.
III. Celibato, povertà reale, obbedienza, ascesi, accettazione delle prove: mezzi per vivere la gioia del sacerdozio
Dopo la terza lettura, 2 Cor 4, 1-15:
8. “Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (2 Cor 4 ,7).
Cari confratelli, ci era necessario meditare innanzitutto sullo splendore del sacerdozio, sulla “potenza straordinaria” di salvezza che Dio ci affida. Ma come ignorare le tribolazioni del ministero che lo stesso san Paolo provava? Come non riconoscere le debolezze dei nostri “vasi di creta”? Vorrei aiutarvi a viverle nella speranza e incoraggiare i vostri sforzi di rinvigorimento. Il curato d’Ars diceva: “Non spaventatevi del vostro fardello, Nostro Signore lo porta con voi” Le difficoltà dell’apostolo possono provenire dall’esterno, mentre egli è fedele a servire solo Gesù Cristo. Egli subisce il dileggio, la calunnia, ostacoli alla sua libertà; gli avviene anche d’essere, come dice san Paolo, “tribolato da ogni parte”, “perseguitato”, “colpito”. In taluni paesi quanti sacerdoti, quanti cristiani subiscono in silenzio queste persecuzioni? Spesso esse stimolano la fede dei fedeli per contraccolpo e la purificano. Ma quale prova! E che ostacolo al ministero! Rimaniamo solidali con questi fratelli provati.
Nei paesi occidentali, vi sono altre difficoltà. Voi incontrate un diffuso spirito di critica, di malfidenza, di secolarizzazione, anche di ateismo, o semplicemente di chiusura su preoccupazioni materialiste, e si relativizza o si rifiuta il messaggio che voi volete portare in nome di Cristo e della Chiesa. Già negli anni ‘50, il card. Suhard aveva ben descritto il segno di contraddizione che è il sacerdote in una società che teme il suo messaggio e lo classifica tra gli uomini del passato o gli utopisti. Da allora, in molte diocesi, i sacerdoti sono divenuti meno numerosi, l’età media si è innalzata. Questa piramide delle età rende talvolta più difficile l’integrazione dei giovani sacerdoti.
Lo scoraggiamento può anche trovare alimento nelle nostre mentalità di sacerdoti; taluni possono lasciarsi vincere dalla mestizia, dall’acrimonia di fronte a insuccessi o dibattiti senza fine; talvolta irrigidimenti provenienti da ideologie estranee allo spirito cristiano e sacerdotale; talvolta ancora uno spirito di sfiducia sistematica verso Roma. Tutto questo ha pesato e pesa sul dinamismo dei sacerdoti. Ho l’impressione che i giovani sono più liberi di fronte a tali mentalità. Li incoraggio e li invito anche ad apprezzare le generazioni precedenti di sacerdoti provati ma fedeli; essi hanno portato il peso di ogni giorno e delle avversità ambientali in mezzo a molti cambiamenti, e hanno svolto il proprio compito molto spesso in uno spirito evangelico.
Per finire, ciascuno di voi conosce difficoltà proprie: di salute, di solitudine, di preoccupazioni familiari, e anche le tentazioni del mondo che entrano in lui, talvolta il senso di una grande povertà spirituale, se non di debolezze che umiliano. Offriamo a Dio questa fragilità dei nostri “vasi di creta”.
È un bene per noi sapere che il curato d’Ars ha conosciuto anch’egli molte prove: le miserie del suo corpo tartassato dalle fatiche del suo ministero e dai suoi digiuni, le incomprensioni e le calunnie dei suoi parrocchiani, i sospetti critici e le gelosie dei suoi confratelli e alcune prove spirituali più misteriose: una certa “melanconia soprannaturale”, diceva l’abate Monnin, alcune desolazioni spirituali, l’angoscia per la propria salvezza, una lotta implacabile contro lo Spirito del male, e una certa mancanza di luce. Le anime generose e spirituali ne sono raramente esenti. Tuttavia, malgrado la sua viva sensibilità, non si è mai visto il curato d’Ars scoraggiato. Egli ha resistito a queste tentazioni.
9. Dunque anche voi conoscete il cammino della salvezza e i mezzi per ricaricarsi. Direi innanzitutto: una ripresa spirituale.
Come potremmo porre rimedio alla crisi spirituale del nostro tempo se noi stessi non ci avvalessimo di un’unione profonda e costante al Signore di cui siamo i servitori? Nel curato d’Ars abbiamo una guida impareggiabile. Diceva: “Il sacerdote è innanzitutto un uomo della preghiera . . . è la riflessione, l’orazione, l’unione a Dio che ci occorre”. Non è senza ragione che i nostri direttori spirituali hanno insistito su un periodo di orazione effettuato ogni giorno, gratuitamente, in presenza del Signore, sull’ascolto quotidiano della parola di Dio, sulla lode e l’intercessione, in nome della Chiesa, attraverso la preghiera della liturgia delle Ore, sul modo di celebrare quotidianamente l’Eucaristia, sulla preghiera mariana: che ammirazione aveva per la Vergine il curato d’Ars: “Il mio più vecchio affetto”! e che fiducia: “Basta volgersi a lei per essere esaudito”!
Penso anche a momenti regolari di ritiro per lasciare allo Spirito di Dio la possibilità di entrare in noi, di “verificarci”, e di aiutarci a discernere l’essenziale della nostra vocazione. L’incontro quotidiano con le bellezze e le miserie umane, nel nostro ministero, va evidentemente integrato nella nostra preghiera; esso può nutrirla, a condizione di riportare tutto al Signore, “per la sua gloria”.
Tutti i nostri impegni sacerdotali assumono nuovo rilievo nella luce di questa vitalità spirituale: il celibato, segno della nostra disponibilità senza limiti a Cristo e agli altri; una povertà reale, che è partecipazione alla vita di Cristo povero e alle condizioni dei poveri, come ha mostrato padre Chevrier; l’obbedienza, che traduce il nostro servizio nella Chiesa; l’ascesi necessaria a ogni vita, a cominciare dal ministero quotidianamente assolto; l’accettazione delle prove che sopravvengono e anche delle mortificazioni volontarie offerte con amore per le anime. Il curato d’Ars ha fatto l’esperienza di questa parola del Signore: “Ci sono dei demoni che si scacciano col digiuno e la preghiera”.
Ma, direte voi, dove trovare l’energia per tutto questo? Certo, non siamo dispensati dall’essere uomini di coraggio. Ma “il giogo è dolce e il fardello leggero” se il nostro coraggio si appoggia sulla fede, sulla fiducia che il Signore non abbandonerà coloro che si sono affidati a lui: “Dio è più grande nel nostro cuore” (1 Gv 3, 20). Per sovrappiù, troveremo la gioia: il volto emaciato del curato d’Ars sembrava sempre sorridere!
10. “Mi sono fatto tutto a tutti, debole con i deboli”. Il ministero sacerdotale, vissuto in uno stato d’unione con Dio, è allora terreno quotidiano della nostra santificazione.
Gesù pregava così il Padre per i suoi apostoli: “Non ti chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno” (Gv 17, 15). Il Concilio ha raccomandato ai pastori di non essere mai estranei all’esistenza e alle condizioni di vita del loro gregge (cf. Presbyterorum Ordinis, 13). In Francia molti sacerdoti della generazione del Concilio, e già prima, hanno sentito molto fortemente questa preoccupazione. Questo atteggiamento di accoglimento, di ascolto, di comprensione, di condivisione è sempre necessario affinché l’evangelizzazione si faccia in termini udibili e credibili. Lo dico in particolare alle nuove generazioni di seminaristi. Padre Chevrier si era fatto povero coi poveri; è necessario penetrare allo stesso modo nelle mentalità nuove degli ambienti da evangelizzare, ricchi o poveri, colti o no. È necessario che, attraverso di voi, il vigore missionario dei più anziani di voi si mantenga per il mondo attuale. Ma proprio per questo i sacerdoti, dice ancora il Concilio, non dimenticheranno di essere i dispensatori di una vita diversa dalla vita terrena, e che non devono modellarsi sul mondo attuale, ma devono vagliarlo alla luce del Vangelo. Non devono nemmeno mettere in questione le opzioni temporali e politiche dei loro fedeli, anche legittime, affinché il loro ministero sia aperto a tutti e chiaramente orientato verso il regno di Dio.
11. La qualità spirituale e apostolica dei sacerdoti di domani si prepara oggi, e non posso tralasciare di ricordare questa formazione.
Cari seminaristi, che gioia per me vedervi tutti riuniti qui! Saluto in voi coloro che assicurano il ricambio al clero di Francia. Anche se siete ancora il piccolo gregge del Vangelo, sono colmo di speranza nel vedervi. E conto sulla vostra gioia di consacrare la vostra vita al fine di suscitare molti altri candidati. Credo che siete pronti ad accettare anche le esigenze di questo servizio. Molti tra voi entrano in seminario in un’età più matura che in passato, dopo un’esperienza di lavoro o di studi. Tuttavia - un’inchiesta recente l’ha mostrato - avete pensato al sacerdozio già prima dell’età di 13 anni. Accettate le condizioni di discernimento e di maturità della vostra vocazione.
Se Dio vi chiama, se la Chiesa giudica così, non lasciatevi scoraggiare dalle prove del cammino. Conoscete, penso, le innumerevoli difficoltà incontrate dal giovane Giovanni-Maria Vianney per essere sacerdote: mancanza di istruzione e di contatti con le persone colte, ritardo a causa della rivoluzione francese, necessità di lavorare in fattoria, la distraente avventura del servizio militare, soprattutto difficoltà di familiarizzarsi col latino, mancanza di memoria, esitazioni dei responsabili del seminario, ordinazione tardiva, nella solitudine, in un paese occupato . . . Certo, ha beneficiato di grazie: un clima familiare cristiano, l’aiuto affettuoso e tenace dell’abate Balley, d’Ecully. Tuttavia il suo cammino per arrivare al sacerdozio incoraggerà tutti coloro che conoscono la prova per la maturazione della propria vocazione.
I vostri seminari devono poter accogliere sensibilità diverse, in un grande rispetto reciproco; le anime generose non devono essere ostacolate dal timore degli altri, e non devono nemmeno giudicarli a priori. Il legame con il vescovo è primordiale, l’accompagnamento di un direttore spirituale personale e il giudizio di un’équipe educativa sono garanzia della vocazione. Non si conquista il sacerdozio, vi si è chiamati da coloro che vi giudicano adatti, in nome del vescovo.
Spero che i vostri seminari vi preparino al meglio alla vita sacerdotale che è stata incessantemente dinanzi ai nostri occhi oggi. Ai vescovi di questa regione del centro-est, che ho ricevuto in occasione della visita “ad limina” nel 1982, dissi che dovremo perseguire una riflessione filosofica profonda, fino al piano metafisico, senza arrestarvi a “confuse impressioni”; la teologia deve essere affrontata con l’atteggiamento, allo stesso tempo intellettuale, scientifico e spirituale, di una iniziazione la più completa possibile al mistero della salvezza; l’ascolto della parola di Dio deve tenere il primo posto nelle vostre case; la formazione alla vita spirituale con colloqui adeguati e l’assidua lettura degli autori è evidentemente indispensabile. Allo stesso tempo dovete compiere l’esperienza di una vita comunitaria fraterna e di una preghiera liturgica e personale approfondita, come dicevo a proposito della ripresa spirituale. Vi è anche posto per un certo apprendimento del ministero: come conoscere il mondo d’oggi, qual è, come avvicinarlo in un dialogo pastorale, un dialogo di salvezza. Alle soglie della vita sacerdotale, dovete essere aperti alla diversità dei compiti pastorali necessari a una diocesi, e disponibili a quella che vi sarà affidata.
Tutte queste esigenze della vita dei seminari che fortunatamente molti studenti, attualmente, sembrano desiderare rappresentano anche una grande responsabilità per direttori e professori. Prego il Signore di assisterli in questo servizio capitale alla Chiesa.
12. Quanto a voi sacerdoti, avete anche bisogno di un rinvigorimento intellettuale e di un sostegno comunitario. Voi capite bene la necessità del lavoro intellettuale, di una sorta di formazione permanente, di natura tale da approfondire la vostra riflessione teologica, pastorale e spirituale (can. 279). Non è impressionante notare che il curato d’Ars, malgrado le sue giornate spossanti, cercasse ogni giorno di leggere, scegliendo tra i 400 volumi rimasti nella sua biblioteca!
D’altra parte, auspico che una vera fraternità vi unisca al di sopra di tutte le differenze, una fraternità sacramentale e affettiva. Padre Chevrier voleva unirsi ad altri sacerdoti laici. I sacerdoti religiosi trovano sostegno tra i loro fratelli. I sacerdoti secolari vivono una maggiore solitudine, e penso che i sacerdoti delle giovani generazioni avranno difficoltà a vivere soli come il curato d’Ars. È certo che molti troveranno nelle associazioni sacerdotali un grande appoggio fraterno e uno stimolo alla loro riflessione e alla loro preghiera. So che esse hanno in Francia un ritorno di vitalità, e le incoraggio.
Talune persone o associazioni di laici si applicano anche ad aiutare i sacerdoti isolati e poveri, come l’Opera delle campagne. Ciò è molto lodevole. Tuttavia la cosa che voglio sottolineare è la collaborazione sempre più intensa tra sacerdoti e laici nel ministero. Vi è qui una grande speranza per l’apostolato, e direi un grande stimolo per il sacerdote stesso, se sa dar fiducia ai laici nelle loro iniziative, aiutare a discernere ciò che conviene e porsi egli stesso come sacerdote. Anche in questo campo il curato d’Ars sapeva suscitare la collaborazione dei suoi parrocchiani e renderli più responsabili.
13. E voi, cari diaconi, i miei colloqui di questa mattina vi riguardano da vicino, poiché siete i collaboratori dell’ordine sacerdotale. Non posso ricordare il vostro incarico senza pensare all’atteggiamento di Gesù il giovedì santo: egli si alza da tavola, lava i piedi dei suoi discepoli, e, nel momento in cui istituisce l’Eucaristia indica il servizio degli altri come via maestra. Diaconi permanenti, il vescovo vi associa ai sacerdoti attraverso un’ordinazione che vi pone per sempre al servizio nel popolo di Dio in un modo che vi è proprio. La Chiesa conta molto su voi, in particolare per annunciare la Parola e catechizzare, per preparare ai sacramenti, per amministrare il battesimo e dare la santa comunione, per presiedere alla preghiera della comunità in talune circostanze, per assicurare altri servizi di Chiesa e soprattutto portare la testimonianza della carità in molti settori della vita sociale. Sono lieto di benedirvi e di benedire le vostre famiglie.
14. Al termine di questa lunga meditazione, ritorno sull’aspetto missionario del nostro sacerdozio. Si tratta, come un buon pastore, di unirsi alle persone là dove esse sono. A questo fine vi sono molti approcci apostolici: presenza discreta e paziente nella vicinanza amichevole, nella condivisione delle condizioni di vita, talvolta persino di lavoro, nel mondo operaio, nel mondo dei lavoratori intellettuali o in altri ambienti quando questi sembrano isolati dalla Chiesa e hanno bisogno del dialogo quotidiano e credibile di un sacerdote, solidale con la loro ricerca di un mondo più giusto e più fraterno. In questo caso i sacerdoti sono in grado di esercitare il ministero ordinario dei loro confratelli curati o cappellani. Nella misura in cui la loro motivazione è apostolica, il loro continuo rinvigorimento spirituale regolare, e dove ciò corrisponde a una missione ricevuta dal vescovo, sappiano essi che hanno la stima della Chiesa! Possano rendere sempre una testimonianza autentica al Vangelo, considerandolo come una funzione sacerdotale, una preparazione a un’evangelizzazione più completa! Che la loro appartenenza a un solo e medesimo presbiterio, col quale avranno a cuore intrattenere legami stretti e frequenti, permetta loro di mantenere in sé la responsabilità di intendenti dei misteri di Cristo, e che tutti i sacerdoti si sentano solidali col loro ministero al servizio dell’evangelizzazione! Del resto, i cambiamenti che il Vangelo deve suscitare nella società sono di solito l’opera dei laici cristiani, in unione coi sacerdoti.
Rimane vero che tutti gli sforzi pastorali dei sacerdoti devono convergere, come nel curato d’Ars, verso l’annuncio esplicito della fede, verso il perdono, verso l’Eucaristia. Soprattutto, lo diceva Paolo VI ai vostri vescovi nel 1977, non separate mai missione e contemplazione, missione e culto, missione e Chiesa. Come se vi fossero da una parte coloro che esercitano un’attività missionaria verso chi è ai margini della Chiesa e dall’altra coloro che si preparano ai sacramenti, alla preghiera, rafforzando l’istituzione cristiana. La missione è l’opera di tutta la Chiesa; prende slancio nella preghiera, e forza nella santità.
La missione non saprebbe nemmeno limitarsi ai bisogni del vostro paese, per quanto grandi siano. Essa è aperta alle altre Chiese, alla Chiesa universale che continua a contare sull’aiuto dei sacerdoti francesi, nel solco dell’ammirevole generosità missionaria che si è mantenuta da un secolo e mezzo a questa parte. Le diocesi francesi che, anche nella loro attuale povertà, perseguono questo sforzo di solidarietà, ritrovano per se stesse un dinamismo missionario.
15. Ma non voglio limitare il mio appello alla Francia. Vi sono qui sacerdoti e vescovi venuti da oltre sessanta paesi del mondo. Si sentono a casa loro ad Ars, dove il sacerdozio ha brillato di un fulgore tutto particolare. L’esempio di san Giovanni-Maria Vianney continua a dare slancio ai curati del mondo intero e a tutti i sacerdoti impegnati nei compiti apostolici più diversi. Da questo luogo elevato, che contrasta con la modestia del paese primitivo, rendo grazie a Gesù Cristo per questo dono inaudito del sacerdozio, quello del curato d’Ars, e quello di tutti i sacerdoti di ieri e di oggi. Essi prolungano attraverso il mondo intero il santo ministero di Gesù Cristo, nelle comunità cristiane come negli avamposti della missione; essi lavorano, spesso in condizioni difficili, nascoste e ingrate alla salvezza delle anime e al rinnovamento spirituale del mondo che talvolta li onora, talvolta li ignora, li misconosce o perseguita.
Oggi, in unione con tutti i vescovi del mondo, miei confratelli nell’episcopato dei quali i sacerdoti sono i primi collaboratori, io rendo loro l’omaggio che meritano, pregando Dio di sostenerli e di ricompensarli. E invito tutto il popolo cristiano ad associarsi.
E al mio ringraziamento, unisco un pressante appello a tutti i sacerdoti: quali che siano le vostre difficoltà interiori o esterne, che il Signore misericordioso conosce, rimanete fedeli alla vostra sublime vocazione, ai diversi impegni sacerdotali che fanno di voi uomini totalmente disponibili al servizio del Vangelo. Nei momenti critici pensate che nessuna tentazione di abbandonare è fatale dinanzi al Signore che vi ha chiamati, sappiate che potete contare sul sostegno dei vostri fratelli nel sacerdozio e dei vostri vescovi.
La sola domanda decisiva che Gesù pone a ciascuno di noi, a ogni pastore, è quella posta a Pietro: “Mi ami, mi ami veramente?” (Gv 21, 15). Allora, cari confratelli, non abbiate paura! Se il Signore ci ha chiamato nel suo campo, è con noi attraverso il suo Spirito. Lasciamoci trascinare dallo Spirito Santo, nella Chiesa.
A ciascuno di voi, seminaristi, sacerdoti, diaconi, e a tutti coloro che rappresentate impartisco la mia affettuosa benedizione apostolica.
Ora ci accingiamo a pregare Maria nell’Angelus. Il curato d’Ars aveva consacrato la sua parrocchia a Maria concepita senza peccato. Che essa ci aiuti a cooperare al meglio alla missione del suo Figlio Salvatore!
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