INCONTRO DI GIOVANNI PAOLO II
CON IL CLERO DI ROMA
Giovedì, 1° marzo 1990
È bene che questa prima giornata della Quaresima sia diventata il giorno dell’incontro con il clero di Roma. Durante questo incontro il vescovo di Roma si mette soprattutto in ascolto: è quasi un’anticipazione degli esercizi spirituali che il Papa inizierà fra qualche giorno; è un’anticipazione molto utile; con grande attenzione e con grande profitto per me ho ascoltato tutto quello che voi avete voluto dire, qui, in questa assemblea.
Naturalmente, sono i problemi del Sinodo, del Sinodo che si realizza, che cammina da parecchi anni; i problemi che nascono dentro questo cammino e anche i problemi che da questo cammino vengono provocati, perché il Sinodo certamente deve essere un “andare insieme”, un “camminare insieme”, come si è detto, e come significa anche la parola greca; ma deve anche essere una “provocazione”. Questa provocazione è di tipo emotivo, affettivo, e tutto questo è giusto; ma deve essere sempre approfondita, per trovare una risposta. Genericamente parlando, e penso che per la Chiesa di Roma ci voglia una riflessione, a uno studio sinodale deve seguire anche una provocazione, perché questa Chiesa di Roma non si trova in una situazione perfetta. Siamo tutti consapevoli della sua bellezza e della sua forza, ma nello stesso tempo della sua debolezza, o delle diverse debolezze. La parola chiave, a cui le riflessioni sinodali sono arrivate, è la parola “comunione”. Questa è veramente la parola chiave.
Il Sinodo riprende naturalmente l’ecclesiologia del Vaticano II: ricchissima ecclesiologia. Più o meno tutti sono convinti che l’ecclesiologia del Vaticano II si riassume più adeguatamente con questa parola: “comunione”. Non con la sola parola “comunione”, ma soprattutto con questa parola. Lo hanno anche constatato, per esempio, i membri del Sinodo straordinario organizzato nel 1985, nel XX anniversario della conclusione del Concilio, nel documento finale. Ma, se prendiamo questa parola “comunione”, si vede che il Concilio Vaticano II, essendo un Concilio soprattutto ecclesiologico, è stato, nello stesso tempo, un Concilio profondamente teologico, e ci ha mostrato la strada indispensabile che guida la Chiesa a Dio, alla realtà divina, al Mistero di Dio, perché Dio è comunione; è comunione perché è amore, ed essendo amore non può non essere comunione. Questo è il suo Mistero, ma questa è la sua profondissima realtà rivelata; senza rivelazione non sarebbe possibile concepire questa verità: che Dio è comunione.
I nostri fratelli delle religioni non cristiane hanno sì un concetto di Dio “unico”, un concetto “monoteistico”, ma non hanno il concetto di Dio comunione. Questo Dio “comunione”, che è creatore dell’universo, è creatore come comunione; ed è quanto si legge chiaramente nella rivelazione divina. Il carattere comunionale lo riscontriamo nella creazione. Nel creato c’è l’impronta del suo mistero, della comunione che è Dio; ma soprattutto Dio, essendo comunione, essendo creatore del mondo, non può rimanere - come vuole la mentalità dei “lumi”, cioè illuministica - solamente trascendente o indifferente. Per la Chiesa, per il cristianesimo questa trascendenza indifferente è un’offesa a Dio. È in contrasto con quello che lui veramente è. Dobbiamo aggiungere che questa mentalità, questo modo di pensare “illuministico”, ispirato dall’illuminismo, è abbastanza diffuso nella società contemporanea, come anche nella società dei secoli precedenti, almeno nel secolo scorso.
Questo Dio che è “comunione” è anche “missione”. La dottrina ecclesiologica del Vaticano II ci ha insegnato che Dio è “missione”, perché è “comunione”, è “creatore”, perché è “missione trinitaria”. Questo Dio non lascia il mondo a se stesso; non permette che questo mondo diventi una realtà separata da lui. Pur rispettando la sua autonomia, soprattutto l’autonomia dell’uomo, pur rispettando l’autonomia che viene dalla libertà umana, dal libero arbitrio, questa autonomia che proviene da lui, Dio-Amore, Dio-comunione” si mette in missione. La Chiesa è frutto di questa missione. È sacramento di questa missione.
Noi portiamo nelle nostre radici questa realtà di Dio che è “comunione” e che è “missione”. Così nasce la Chiesa; nasce la Chiesa nella sua universalità e anche in ogni sua dimensione particolare. Così nasce anche la Chiesa in ogni parrocchia. La Chiesa in ogni parrocchia ha in sé questo mistero di Dio che è “comunione” e “missione”, “missione” perché “comunione”, perché è Amore. Con questa ecclesiologia del Vaticano II noi dobbiamo essere sempre più vicini: misurare sempre più il nostro modo di pensare e di agire. È qui il ruolo profetico del Concilio Vaticano II per la nostra generazione e per molte generazioni future. Dobbiamo vivere con questa ecclesiologia perché, vivendo con questa ecclesiologia, viviamo con la teologia rivelata, trinitaria, e viviamo soprattutto insieme con il mistero della creazione, con questo stupendo mistero che costituisce il cristianesimo e costituisce la Chiesa; il mistero della redenzione, il mistero pasquale.
Dopo un Concilio, che ci ha portato tanta ricchezza di insegnamento del magistero, ci voleva un Sinodo e il Sinodo si celebra in molti luoghi, in molte diocesi del mondo. Il Sinodo si appropria di questa ricchezza, di questa ricchezza del Concilio Vaticano II per far vivere più la Chiesa e, attraverso la Chiesa, far vivere più profondamente il mistero di Dio, il mistero della creazione, il mistero della redenzione, e, finalmente, per vivere di più il mistero dell’uomo. Tutto questo è perfettamente connesso; è un’unità organica che certamente il Concilio Vaticano II, nei suoi documenti, nelle sue costituzioni, ha saputo trasmettere magisterialmente alla Chiesa.
Naturalmente, sapendo tutto questo, vivendo tutto questo, noi ci incontriamo nella realtà umana, in una città come Roma, del mondo occidentale, in ogni parrocchia romana ci incontriamo allo stesso tempo con un processo contrario. Questo processo si può chiamare in diversi modi, ma forse la parola “secolarizzazione” è quella che corrisponde di più a una tendenza “anticomunionale”, “antimissionale”. Noi vogliamo vivere in questo mondo, siamo figli di questo mondo e non vogliamo vivere più come se Dio stesse fuori dal mondo, come se Dio non esistesse.
Questa tendenza non è una tendenza sempre esplicita: non è un ateismo programmatico, molte volte è agnosticismo. È tante volte, una posizione comoda, perché, certamente, questo Dio-comunione, questo Dio rivelato attraverso la passione di Cristo, la passione, la croce e la risurrezione di Cristo, è un Dio esigente. Vuole l’uomo, vuole la sua salvezza, la sua perfezione; vuole che l’uomo diventi partecipe della sua divinità. Invece il programma secolaristico vuole liberare l’uomo da tutto questo.
Basta a te il mondo, afferma; basta per te il mondo. Non è vero - rispondiamo noi -. Non è vero, perché alla fine il mondo lascia l’uomo come un cadavere. Allora non è vera, anche se è suggestiva, questa proposta, anche se è facile.
Carissimi confratelli, la Chiesa, in tutte le sue dimensioni - Chiesa universale, Chiesa di Roma, Chiesa particolare, diocesana, Chiesa parrocchiale, ogni Chiesa, in ogni dimensione, e non potrebbe essere altrimenti - è un luogo in cui queste due realtà, la realtà di Dio comunione-amore, comunione-missione, creatore-redentore e la realtà dell’uomo, che può solamente attraverso Cristo conoscere se stesso (realtà che il Concilio Vaticano II ci ha ricordato, ripresentato), si scontrano. Dio da una parte; dall’altra, la tendenza che viene dal secolarismo, dall’indifferentismo, forse dall’illuminismo, e, qualche volta, dal marxismo. È questa la nostra situazione; e non è una situazione facile. Noi abbiamo un compito responsabile, esigente, e qualche volta questo compito esigente sembra superare le nostre forze. Ma Cristo ha previsto tutto questo e ci ha lasciato l’assicurazione che egli rimane con noi sino alla fine del mondo. Alla fine, la vittoria sarà sua, è già sua con la risurrezione. Ma dentro questa situazione Cristo è già risorto, e la vittoria è già sua. È la realtà storica del mondo. Vi sono sempre tensioni, anzi, tensioni crescenti.
Tutto questo ci dice due cose insieme, che forse saranno utili per la riflessione sinodale. Noi dobbiamo essere in comunione molto profonda con Dio per portare avanti la sua missione comunionale, la sua missione divina, trinitaria. Noi dobbiamo essere sempre più in comunione fra noi, uniti fra noi, perché questa è la conseguenza della nostra somiglianza - siamo a immagine e somiglianza di Dio - della nostra vocazione cristiana. Questo è anche un imperativo della strategia evangelica, missionaria, pastorale. Per questo, sono molto grato al cardinale vicario, ai vescovi ausiliari e a tutti voi. Questo Sinodo cammina, va avanti. In che modo deve diventare prassi, ed è già una prassi? Già la sua convocazione, il suo processo sinodale è una prassi. In quale misura potrebbe diventare ancora più prassi? In quale modo potrebbe diventare ancora più “provocazione”? Forse sarebbe utile che diventasse ancora più provocazione, perché molti dormono. Ma, soprattutto, questo processo sinodale porta una luce su quello che costituisce il vostro lavoro quotidiano e la vostra esistenza sacerdotale e pastorale quotidiana. E benché il Sinodo sia anche uno sforzo, un impegno, possiamo dire “più”, questo impegno serve a ciascuno di noi, ci arricchisce, rende la nostra difficile vita forse un po’ meno difficile, perché è una realizzazione per camminare insieme, nell’unità del popolo di Dio. È l’unità del presbiterio e sappiamo bene che la forza si trova nell’unità. Dobbiamo sempre più promuovere questa unità del popolo di Dio, questa unità dei sacerdoti, del presbiterio, questa unità con i nostri fratelli e sorelle consacrati. Questa unità con tutti i nostri laici impegnati, e non ci mancano, con i nostri catechisti, con i nostri operatori sanitari, caritativi e tanti altri. Io faccio, quando posso, le visite pastorali a Roma, e vedo più o meno come queste forze siano presenti e crescano. Forse diminuisce il numero anche di quelli che fanno pratica domenicale. Forse questo diminuisce. Ma, d’altra parte, cresce il numero delle persone impegnate. Ci vuole, allora, una unità ancora più profonda, una comunione ancora più profonda di tutti quelli che costituiscono la Chiesa di Roma, la Chiesa viva. Anche davanti al mondo secolarizzato; anzi, a causa di questo mondo, la situazione è analoga a quella dopo la Pentecoste, dopo la risurrezione e dopo l’ascensione di Cristo, al tempo della Chiesa primitiva. È molto simile. Naturalmente il contesto storico è molto diverso. Ma la situazione nostra è molto simile.
Grazie per avermi ascoltato e per avermi dato l’opportunità di presentarvi queste mie riflessioni intorno al Sinodo e soprattutto intorno al concetto di “comunione” con cui questo Sinodo lavora.
© Copyright 1990 - Libreria Editrice Vaticana
Copyright © Dicastero per la Comunicazione - Libreria Editrice Vaticana