VISITA PASTORALE IN CAMPANIA
DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI SACERDOTI E AI RELIGIOSI NELLA CATTEDRALE DI NOLA
Nola (Napoli) - Sabato, 23 maggio 1992
[Discorso improvvisato:]
Ecco, carissimi, per la seconda volta il vostro Vescovo mi pone la stessa domanda. Allora si vede che c’è una insistenza, una domanda, possiamo dire, basilare, una domanda che è il punto di partenza della Chiesa. Così ha incominciato a vivere la Chiesa il giorno di Pentecoste, intorno al Cenacolo, a Gerusalemme, quando Pietro per la prima volta, pervaso dalla forza dello Spirito Santo, ha potuto fare una catechesi, la prima catechesi apostolica nella storia della Chiesa. E dopo questa catechesi ha ricevuto la stessa domanda: che cosa dobbiamo fare?
Sappiamo come Pietro ha risposto e come la sua risposta fosse fruttuosa, subito il primo giorno, e poi negli altri giorni: lo leggiamo negli Atti degli Apostoli, capitolo dopo capitolo: soprattutto Pietro e Paolo, ma anche altri, per esempio Filippo. Ecco, io sono stato toccato da questa domanda che mi ha fatto il vostro Vescovo e tanto più se l’ha fatta per la seconda volta. Allora ho cercato di trovare una risposta. Certamente la risposta si trovava nell’omelia e si trova anche qui, in questo discorso, ma io non leggo questo discorso. Ve lo lascio da leggere, se volete.
Vorrei improvvisare una risposta che mi è venuta già stamattina nel contesto della visita che facevo prima sulle orme di San Paolino, in quello stupendo complesso archeologico cristiano, in quella Basilica.
La signora che mi ha guidato dando le spiegazioni da specialista, ha detto che Paolino è venuto qui, in questa città di Nola. Paolino apparteneva alla classe amministrativa, non direi burocratica, e da amministratore è diventato Vescovo. Il Vescovo deve essere anche amministratore in un’altra amministrazione, così come ogni parroco, ogni sacerdote, e direi ogni cristiano. Abbiamo ricevuto da Dio la sua economia, e siamo stati chiamati per essere amministratori in questa economia divina.
Così Paolino da amministratore dell’impero romano è diventato amministratore evangelico, Vescovo, qui, nella stessa città di Nola. Lui ha dato molto per costruire la Chiesa, costruire in duplice senso: costruire la chiesa come edificio, la Basilica, e costruire naturalmente la Chiesa anche come comunità del popolo di Dio, la Chiesa delle pietre vive.
La signora mi ha spiegato come lui ha fatto questa prima costruzione, come ha fatto a costruire questa Basilica: non mi ricordo bene, ci sono Basiliche più antiche e meno antiche. Quella costruita da lui, ha sottolineato la signora, è stata orientata verso le reliquie del martire San Felice, presbitero romano. Così fece orientare questa sua Basilica, paolina, che tiene orientata la navata verso le reliquie del martire. Naturalmente questo è rimasto nella tradizione della Chiesa che costruisce sempre la chiesa come edificio sacro sulle reliquie dei martiri, e soprattutto l’altare, che porta in sé un portatile delle reliquie dei martiri: non tanto le reliquie nel senso fisico, materiale, corporale, ma le reliquie nel senso spirituale. Le reliquie di un martire sono le reliquie di un testimone. Martire vuol dire testimone, colui che ha dato testimonianza, anzi ha dato la testimonianza suprema donando se stesso, donando la sua vita. E qui naturalmente la prima pietra, la “pietra angolare” è Cristo. Egli ha dato questa testimonianza suprema offrendo se stesso, offrendo la sua vita. Tutti i martiri sono della stessa genealogia, tutti i martiri della Chiesa esprimono la stessa realtà. Anche questo martire, San Felice - presbitero, alcuni dicono Vescovo, ma piuttosto presbitero - la esprimeva, e la esprime ancora oggi: ai tempi di Paolino e nei nostri tempi.
Ho imparato molto qui a Nola. Sono tanto lieto di questa visita. Prima sapevo un po’ di San Paolino di Nola dal breviario che si recita, si prega ogni anno. Torniamo a quella spiegazione che mi ha dato la signora esperta di archeologia. Penso che nel modo con cui è costruita la chiesa, la basilica di San Paolino di Nola, si trova anche la risposta alla domanda del vostro Vescovo: “Cosa dobbiamo fare?”. Pietro ha detto ai suoi ascoltatori intorno al Cenacolo di Gerusalemme: “Convertitevi, fatevi battezzare!”. Ma prima di lui, Gesù stesso ha dato una risposta di fondo. Ha detto agli Apostoli: “Sarete i miei testimoni”. Cosa dobbiamo fare? Nient’altro: essere testimoni. E cambiare i non-testimoni in testimoni. Perché quella di cui parlava il vostro Vescovo è appunto una Chiesa piena di persone, una Chiesa numerica, statistica. Diceva un filosofo francese: Chiesa sociologica, cristianesimo sociologico. È un po’ così. Il problema è di come cambiare questa Chiesa numerica, sociologica, o chiamata altrimenti, nella Chiesa dei testimoni. Testimoni vuol dire pietre vive. Pietre vive sono i testimoni. Come diventare noi stessi testimoni e come rendere testimoni anche gli altri.
C’è un ricchissimo deposito in ciascuno di noi. Tutta la struttura della nostra vocazione, della nostra ordinazione, della nostra consacrazione, è struttura di una testimonianza straordinaria, una testimonianza radicale, evangelica. Naturalmente noi portiamo tutto questo come un tesoro in ciascuno di noi, ma si tratta di vivere questo tesoro, di farne una testimonianza vissuta davanti a noi stessi e vissuta poi davanti agli altri. Può essere vissuta davanti agli altri se è vissuta prima di tutto davanti a noi stessi, dentro noi stessi. Solamente quelli che sono testimoni possono anche suscitare la testimonianza degli altri, possono cambiare i non-testimoni in testimoni, le pietre non totalmente vive nelle pietre vive, perché tutti sono battezzati, sono confermati, frequentano la Messa: sembra che qui ci sia anche una frequenza molto buona, poi quando viene il Papa fanno un chiasso terribile...
Ci sono tante riserve, tante potenzialità, tante energie nascoste. Come far vivere queste energie, come fare di tutti questi battezzati, di tutti questi cresimati, di tutti questi nostri carissimi cristiani, dei testimoni? Questo è il problema centrale della Chiesa in ogni epoca. Lo era certamente nell’epoca di San Paolino. Questo è il problema centrale del Concilio Vaticano II. Se si legge il Vaticano II, i suoi documenti sulla Chiesa, fino in fondo, si tratta di questo: la risposta alla domanda “Che cosa vuol dire essere cristiano?”, non solamente nel senso sacramentale, ontologico. Essere cristiano nel senso di una esperienza vissuta, di una testimonianza.
Io penso che quest’applauso è per me anche una soluzione... Ho improvvisato un po’ quello che mi è venuto in mente dopo la domanda del vostro Vescovo. La prima volta mi è venuto in mente durante la Messa, prima dell’omelia, ma poi ho pensato: forse lo dirò nel momento di incontrare il clero, i sacerdoti, le religiose, i religiosi, forse anche i laici impegnati, i seminaristi. Ma non potevo non dirlo quando lui ha ripetuto la stessa domanda. Allora, vi lascio due discorsi: uno scritto, da leggere, da studiare, molto buono, e l’altro improvvisato in onore di San Paolino.
Nella cattedrale di Nola si svolge, nel primo pomeriggio, l’incontro con i sacerdoti, i religiosi e le religiose della diocesi. Dopo l’indirizzo d’omaggio rivoltogli dal Vescovo, Monsignor Umberto Tramma, Giovanni Paolo II ha rivolto ai sacerdoti un discorso a braccio rinunciando al testo già pronto. Questo il testo del discorso preparato per l’occasione.
[Discorso preparato, ma non letto:]
Carissimi fratelli e sorelle,
1. Dopo l’incontro col Popolo di Dio nel suo insieme, ci voleva questa sosta “in disparte, in un luogo solitario” (Mc 6, 31) e raccolto come questa cattedrale, per un colloquio più immediato con voi, che costituite la parte eletta della Chiesa di Nola e che portate in modo più diretto la responsabilità dell’annuncio evangelico fra le difficoltà di ogni giorno. A tutti porgo il mio cordiale saluto, con un particolare pensiero per il vostro Vescovo, il caro Mons. Umberto Tramma, che ringrazio per l’indirizzo rivoltomi e per la fiducia con cui, a nome di tutti, ha espresso l’attesa di una parola d’orientamento e di sostegno. Non v’è dubbio che il lavoro pastorale nel mondo di oggi è difficile, non sempre gratificato da tangibili risultati, a volte perfino dispersivo e frustrante. E tale risulta, in particolare, per il sacerdote. “I questi anni più recenti - ho scritto nell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis - l’attenzione si è spostata dal problema dell’identità del prete ai problemi connessi... con la qualità di vita dei sacerdoti... I sacerdoti già inseriti da un tempo più o meno lungo nell’esercizio del ministero, sembrano oggi soffrire di eccessiva dispersione nelle sempre crescenti attività pastorali” (n. 3). Quali rimedi suggerire nei confronti di simili difficoltà? Per rispondere a queste nuove sfide che concernono il ministero dei presbiteri, occorre partire dalla riflessione su ciò che il sacerdote è per sua natura.
2. È stato giustamente affermato che il costitutivo formale del presbitero diocesano è la ministerialità. Con una diversa e più completa visuale, nella citata Esortazione apostolica ho scritto che l’identità del presbitero ha una connotazione essenzialmente relazionale. Si tratta di una molteplice e ricca trama di rapporti, che sgorgano dalla SS. Trinità e si prolungano nella comunione col Vescovo e con gli altri presbiteri nella Chiesa, segno e strumento, in Cristo, dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (cf. Pastores dabo vobis, 12). Ne scaturisce, come conseguenza inevitabile, che il servizio a favore del popolo non può essere efficace, anzi diventa sterile per gli altri e causa di inaridimento per gli stessi presbiteri, se è solo relazione con i fedeli e non anche, anzi ancora prima, relazione col Signore: “Segno e presupposto dell’autenticità e della fecondità di questa missione è l’unità degli apostoli con Gesù e, in Lui, con il Padre, come testimonia la preghiera sacerdotale del Signore, sintesi della sua missione” (Ivi, 14). Ciò vale anche per coloro che gli apostoli e i loro successori, i Vescovi, scelsero come primi collaboratori, i presbiteri, cioè, che hanno “come relazione fondamentale, quella con Gesù Cristo Capo e Pastore” (n. 16). Vi esorto, pertanto, a nutrire sempre più il vostro ministero della viva e personale amicizia e compagnia con il Cristo. Un’attività pastorale intensa e insonne, un totale impegno nella cose da fare, le omelie, le catechesi, gli incontri, le celebrazioni e quanto altro può riempire la giornata del sacerdote è fatalmente destinato a restare mera agitazione umana, se non viene animato dall’essenziale “filo diretto” con Dio nell’ascolto della sua parola, nella meditazione e riflessione prolungata nella preghiera incessante e fiduciosa. Sia, poi, vostra cura di alimentare, grazie a un costante aggiornamento, la vostra cultura teologica, sempre necessaria, ma oggi più che mai “di fronte alla sfida della nuova evangelizzazione alla quale il Signore chiama alle soglie del terzo millennio” (Ivi, 51). Non si tratta, certo, di seguire ogni moda né di abbracciare un malinteso pluralismo, bensì di attingere alle fonti della rivelazione e al ricco patrimonio dottrinale della Chiesa - sotto la guida del Magistero e con l’aiuto di teologi seri, il pensiero va spontaneamente al grande Giovanni Duns Scoto, al quale è dedicato un altare in questo tempio - per trovare quelle risposte e quegli orientamenti pastorali e spirituali che gli uomini del nostro tempo attendono dal sacerdote.
3. Distinguetevi nella comunione e nella stretta collaborazione con il vostro Pastore. La relazionalità col Vescovo, come ben sapete, non si fonda tanto sulle esigenze di una miglior funzionalità organizzativa, quanto piuttosto sul legame ontologico derivante dal fatto che i presbiteri hanno origine dai Vescovi, successori degli Apostoli, istituiti da Gesù stesso: “Mediante il sacerdozio dei Vescovi, infatti, il sacerdozio di secondo ordine è incorporato nella struttura apostolica della Chiesa” (Ivi, 16). Ugualmente essenziale è la relazionalità fraterna con tutto il presbiterio: “Il ministero ordinato, in forza della sua stessa natura, può essere adempiuto solo in quanto il presbitero è unito con Cristo mediante l’inserimento sacramentale nell’Ordine presbiterale e quindi in quanto è nella comunione gerarchica con il proprio Vescovo. Il ministero ordinato ha una radicale forma comunitaria e può essere assolto solo come un’opera collettiva” (Ivi, 17). Questi principi teologici raramente vengono contestati sul piano teorico, ma rischiano di restare vane affermazioni, se non diventano un reale stile di vita quotidiana. So che voi già vi sforzate di camminare in tale direzione e vorrei invitarvi a crescere nell’unità e nella comunione non lasciando spazio alcuno a un malinteso spirito di emulazione, che diventa facilmente contrapposizione e rischia di creare scandalo e disorientamento tra i fedeli.
4. Siate uomini di Dio! Coltivate la spiritualità propria del sacerdote diocesano. Il Concilio Vaticano II ne ha messo in evidenza i caratteri originali: la consacrazione come impegno evangelico di santità; la diocesanità come valore spirituale; la missione pastorale frutto della consacrazione; la koinonia a tutti i livelli: col pontefice, col proprio Vescovo unito a tutto il collegio episcopale presieduto dal Papa, col presbiterio, con i diaconi, con i laici; il ministero come fonte di santificazione; l’ascesi che, in buona parte, si alimenta dello stesso ministero. Quanto ricca risulta, pertanto, tale vostra specifica spiritualità! Ciò non esclude, com’è ovvio, che essa possa essere ulteriormente arricchita da apporti provenienti da movimenti, associazioni od altri “carismi” suscitati dallo Spirito nella Chiesa. Tuttavia, se il presbitero diocesano può cercare in essi un prezioso aiuto per il proprio cammino vocazionale, mai deve lasciarsi limitare dai confini di una particolare esperienza ecclesiale. Egli è il sacerdote di tutti, il pastore aperto a ogni nascere e fiorire di vita cristiana ed ecclesiale, in atteggiamento di totale servizio della Chiesa locale e universale. Ed è con tale spirito che deve guidare la porzione di popolo cristiano affidato alle sue cure pastorali, educando i fedeli alla comunione e alla collaborazione. Quale “assessore” del Vescovo - secondo l’espressione di Origene (Comm. Cant., 2; Homil. Ezech., X, 1) - il sacerdote opererà tra i movimenti e le associazioni in modo da favorire l’unità intorno al Vescovo, si che ciascuno di essi possa concorrere alla crescita della Chiesa “secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri” (1 Pt 4, 10).
5. Alla crescita della comunione del Popolo di Dio contribuite, in modo singolare, anche a voi, Religiosi e Religiose, che rappresentate un “dono speciale per tutta la Chiesa” (Lumen gentium, 43; CIC, can. 575). Voi offrite alla società una visibile testimonianza dell’insondabile mistero del Cristo e della totale donazione a Lui. Con le vostre scelte di vita voi dimostrate che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini (cf. Lumen gentium, 31). Sappiate vivere tutto ciò con gioia e coerenza! Il miglior servizio che potete rendere alla Chiesa è, pertanto, la testimonianza della ricchezza dei doni e dei carismi, che lo Spirito Santo non cessa di distribuire in misura sovrabbondante alla comunità ecclesiale. Questi carismi sono da impiegare per l’edificazione e lo sviluppo dell’unico Corpo di Cristo, nella consonanza armoniosa delle diversità e nella cooperazione cordiale e generosa. Nella società odierna, dilaniata da lotte e rivalità non di rado drammatiche e sconvolgenti, divisa da contrapposti egoismi, dove persino i principi più nobili vengono presi a pretesto di preoccupanti conflitti, voi siete chiamati a testimoniare la ricerca sincera e operosa dell’unità di quel mirabile organismo che è la Chiesa, composta di membra diverse, tutte protese al bene comune. Questa fedele testimonianza sarà un sicuro richiamo per altre anime generose a seguire i vostri stessi passi. Vi aiuti in questa vostra missione, cari Sacerdoti, cari Religiosi e Religiose, la Madre del Signore, Madre vigile della Chiesa e dell’intera comunità.
Interceda per voi San Paolino, Vescovo e asceta, consacrato al culto di Dio, alla perfezione della comunità monastica e al servizio del popolo diocesano, nella costante prospettiva della glorificazione dell’Altissimo.
Con tali sentimenti tutti di gran cuore vi benedico.
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