PAOLO VI
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 29 ottobre 1975
Durante e mediante questa celebrazione dell’Anno Santo noi stiamo studiando e osando grandi cose, quali sono quelle che riguardano il restauro del piano ideale della vita. Ci attira l’ideale di riordinare il disegno della nostra esistenza, di riparare in noi i falli del nostro modo di pensare e di agire, di dare alla nostra fisionomia umana uno stile di perfezione e di bellezza; e sapendo oramai che questo riordinamento, o rinnovamento come abbiamo preferito definirlo, altro non è che un dare, o ridare alla nostra personalità un’autentica impronta cristiana, noi ci domandiamo, come il giovane del Vangelo, che cosa in fondo noi dobbiamo fare. Sorge così in noi questa interiore e impellente domanda circa il dovere, cioè circa quella esigenza dell’agire, del fare, del diventare, dell’imprimere al nostro essere quella forma che corrisponda alle sue vere e supreme esigenze, il dover essere. Ci accorgiamo che in questa parola « dovere » sta il segreto della nostra vita; non basta vivere, non basta né l’essere, né l’avere, né il potere; quello che importa è la nostra risposta al dover essere, alla chiamata interiore circa la nostra perfezione; e non una perfezione qualsiasi, di sapere, di potere, di apparire, di riuscire, di star bene e di godere, ma una perfezione di dovere, quella perfezione che sola ci definisce veramente uomini, veramente cristiani. Questo è il problema fondamentale: indovinare, scoprire ciò che noi dobbiamo essere moralmente; il che vuol dire: divenire propriamente noi stessi, secondo l’idea che Dio ha concepito su di noi. Questione sottile, ma di facile comprensione: noi dobbiamo conseguire, o tendere a conseguire, la nostra perfetta autonomia nella corrispondenza a quella eteronomia (cioè a quella legge a noi proposta) nella quale si pronuncia la volontà trascendente di Dio, e si realizza il vero nostro essere. Il programma dell’esistenza nel tempo è questo: fare la volontà di Dio. Ricordare il fiat voluntas Tua, del Pater noster? Così ha risposto Gesù, il Maestro della nostra vita, al giovane del Vangelo alla domanda circa ciò che dovesse fare: « osservare i comandamenti » (Matth. 19, 17). Questo è il senso intenzionale della nostra vita, questo dovrebbe essere il verbo della nostra coscienza, questa è l’esigenza principale e direttiva della nostra attività.
Ebbene! arrestiamo, per un istante, che può essere per noi quello decisivo circa l’esito della nostra celebrazione giubilare, la nostra riflessione su questo tema dominante: qual è in noi, in ciascuno di noi il senso del dovere, quale Dio presenta al nostro destino? Quale fu la primissima reazione di S. Paolo (allora ancora si chiamava Saulo) quando Cristo dal cielo lo folgorò sulla via di Damasco: « Signore, che cosa vuoi che io faccia? » (Act. 9, 6). Così noi proveremo a chiedere al Signore, che forse ci ha atteso a questo incontro dell’Anno Santo per illuminarci con la fulminante sua luce: Che cosa dobbiamo fare? O meglio: che cosa io devo fare?
Qui un rapidissimo accenno ad alcune importanti osservazioni. La prima è quella circa la necessità di determinare, almeno in via di massima, la linea normativa, cioè l’esigenza del dovere, circa la concezione della propria esistenza. Diciamo questo non per smentire, né per mortificare un’altra prerogativa della vita, elevata al grado supremo nella mentalità moderna, quella della libertà, che noi sappiamo essere un dono spirituale privilegiato, che configura l’uomo alla somiglianza di Dio (Cfr. Gen. 2, 26), ma per ricordare che il dono della libertà deve essere impiegato nella ricerca e nella scelta del bene, cioè del dovere, anzi dell’amore di Dio, ch’è la suprema e riassuntiva legge del Vangelo (Matth. 22, 3740). La libertà dev’essere bilanciata dall’obbligazione morale, spontaneamente, ma generosamente e totalmente; altrimenti essa diventa diritto, solo diritto egoistico e unilaterale, con tutte le conseguenze antisociali che questa esclusività comporta; ovvero degenera in cieca licenza, schiava dell’istinto, e non certo d’un istinto equilibrato e rivolto alla vera statura dell’uomo.
Due termini ottimi noi incontriamo nel linguaggio contemporaneo, quasi sostitutivi della troppo severa parola di « dovere »: coscienza e responsabilità. Ottimi diciamo, se collegati con le realtà, che questi termini comportano; le realtà trascendenti della legge di Dio e della compagine naturale e sociale, in cui si svolge la nostra vita. Coscienza, sta bene, se essa non si limita a quella psicologica o puramente egoistica, ma si solleva al livello morale, ch’è illuminato dalla luce di Dio; responsabilità, sta bene, se essa conserva la visione integrale dei vincoli a cui dobbiamo osservanza, siano essi personali, o sociali, o religiosi.
Noi pensiamo che questa sacra parola, che suona dovere, non dovrebbe essere abolita dal nostro pensiero e dal nostro linguaggio, specialmente quando, come noi ora, vogliamo rinnovare in noi il senso cristiano: essa è parola piena di forza, di onore, di amore, e di fiducia, parola, che dovrebbe essere stampata, come fecero i grandi, gli eroi, ed i santi nel cuore dell’uomo: io devo!
Con la nostra Apostolica Benedizione.
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