DISCORSO DEL SANTO PADRE PAOLO VI
AL TRIBUNALE DELLA SACRA ROTA ROMANA
Giovedì, 29 gennaio 1970
Siamo lieti di corrispondere con tutto il cuore alle parole del venerato Decano della Sacra Romana Rota, Monsignor Boleslao Filipiak, che bene ha interpretato i vostri sentimenti e il vostro animo in questa particolare circostanza, diletti e venerati Uditori e Ufficiali di quel Tribunale. Dalle sue parole è balzata viva alla Nostra mente l’immagine del Giudice nella Chiesa di oggi, la sua coscienza, le doti che debbono sorreggerlo nel compimento delle sue funzioni, con umiltà, col senso del dovere e della responsabilità che gli incombe, con discrezione, con clemenza unita al rigore pur doveroso, per essere sempre l’interprete sereno e imparziale della legge nell’applicazione ai casi concreti, che gli offre la mobilità della vita.
Di qui l’importanza della vostra missione. Il servizio che voi prestate alla Chiesa è di una importanza fondamentale, così che per esso non possiamo non avere parole di sincero encomio, di viva riconoscenza, e di paterno incoraggiamento. E ci piace ancor oggi ripetere (Cfr. Discorso al Convegno internazionale dei canonisti: A.A.S. 60 (1968), p. 341), a conforto della vostra delicata missione, quelle scarne, ma significative espressioni, con le quali un insigne giurista del passato qualificava, per il tempo presente e per la vita futura, l’attività del maestro e del giureconsulto canonico: «Quicumque ergo ecclesiasticus doctor ecclesiasticas regulas ita interpretatur aut moderatur, ut ad regnum charitatis cuncta quae docuerit vel exposuerit referat, nec peccat, nec errat; cum saluti proximorum consulens, ad finem sacris institutionibus debitum pervenire intendat» (IVO DI CHARTRES, Prol. in Decretum: PL 161, 47-48).
Con la retta applicazione della norma ai casi concreti, voi completate l’opera del legislatore e contribuite allo sviluppo vitale dell’ordinamento ecclesiale. Ma ciò che più rifulge nella vostra missione è appunto la caritas christiana, che rende ancor più nobile e ancor più proficua quell’aequitas dei giudizi, da cui tanto onore trasse il diritto romano, e che è diventata per voi, in virtù dello spirito evangelico, la « sacerdotale moderazione », secondo la bella espressione di San Gregorio Magno.
E mentre vi diciamo il Nostro apprezzamento per la sensibilità morale che ci dimostrate, vogliamo rivolgervi altresì il Nostro incoraggiamento per l’esercizio sempre coerente e generoso delle vostre funzioni pratiche.
SENSIBILITÀ MORALE ED EQUITÀ
1. Lodiamo la vostra sensibilità morale, che è altissima e indispensabile prerogativa del Giudice. Ci pare di poter qui cogliere il tratto essenziale, che deve distinguervi, e ci rallegra intimamente constatare come ne siate profondamente compresi. Di fatto, il Giudice, come tutti sanno, è l’interprete dello ius obiettivo, cioè della legge, mediante l’uso del proprio ius soggettivo - cioè di quella potestas et libertas di cui egli deve poter disporre nel massimo grado -; ne consegue che egli deve possedere una grande obiettività nel giudizio, e insieme una grande equità, per poter valutare tutti gli elementi di cui è venuto pazientemente e tenacemente in possesso, e per giudicare di conseguenza con imperturbabile, imparziale equidistanza. Sarebbe assai utile, a questo fine, approfondire il concetto già accennato di aequitas, sia nel progresso del diritto romano, sia nel complesso del diritto canonico: tale concetto implica una rigorosa valutazione del soggetto sottoposto al giudizio; di qui il processo moderno, canonico o civile, che tiene conto della psicologia delle parti in causa e degli elementi soggettivi, valutando altresì le circostanze ambientali, familiari, sociologiche, ecc. Evidentemente, nell’applicazione di questa obiettività, di questa aequitas, il Giudice non verrà mai meno ai criteri fondamentali del diritto naturale, cioè umano, giusto, né all’osservanza della legge vigente, dello ius scriptum, che si suppone espressione della ragione e delle necessità del bene comune. Ma per tener conto di tutti questi elementi, si richiede nel Giudice una integra dirittura morale, che invano si cercherebbe di instaurare se egli per primo ne fosse privo; e ci conforta sapere che da codesta nobile corona di servitori della Chiesa tale istanza è avvertita in tutta la sua urgenza e serietà.
2. Vi esortiamo quindi, diletti figli, al retto e fervoroso esercizio della vostra funzione pratica di Giudici. Quali virtù si richiedono, e quante! Voi ben lo sapete, che vivete a quotidiano contatto con le realtà e le difficoltà della vostra funzione. È necessaria l’imparzialità, dicevamo, che suppone profonda e irremovibile onestà; è necessario il disinteresse, per il pericolo che intorno ai Tribunali premano interessi estranei al giudizio, venalità, politica, favoritismo, ecc.; è necessaria la sollecitudine, che si prende a cuore la causa della giustizia, nella consapevolezza che essa è alto servizio a Colui che è giusto e misericordioso, misericors et miserator et iustus (Ps. 111, 4), iustus iudex (2 Tim. 4, 8), fidelis et iustus (1 Io. 1, 9).
Fate sempre onore al vostro ufficio, esercitando sempre così la vostra altissima missione, che in tal modo deve adeguarsi, sublimandosi, alla stessa giustizia di Dio, di cui si rende specchio, e fedele strumento.
3. Ma qui siamo obbligati a fermarci, per esaminare una questione di fondo. Queste considerazioni che abbiamo fatto, questa, diciamo così, apologia del Giudice, sembrano implicare un bisogno di difesa della sua funzione, cioè dell’esercizio della potestà giudiziaria, oggi criticata, specialmente nella Chiesa, quasi che essa fosse una «struttura» sovrapposta alla spiritualità e alla libertà del messaggio evangelico. Nessuno ignora oggi l’accentuata tendenza a svalutare l’autorità in nome della libertà: lo ha sottolineato il Concilio in un documento molto significativo, quello appunto sulla libertà religiosa, quando ha osservato che «non sembrano pochi coloro che, sotto pretesto della libertà, respingono ogni dipendenza e apprezzano poco la dovuta obbedienza» (Dignitatis humanae, 8). È la diffusa tendenza cosiddetta carismatica, che diventa antigerarchica: si sottolinea esclusivamente la difficilmente definibile funzione dello spirito a scapito della autorità. In tal modo, si diffonde una mentalità, che vorrebbe presentare come legittima e giustificata la disobbedienza, a tutela della libertà di cui debbono godere i figli di Dio.
NATURA DELL'ORDINAMENTO GIURIDICO
Le ragioni di tale atteggiamento offrirebbero l’occasione ad una lunga disamina, perché si tratta di tema amplissimo. Ma, sia pure per semplici accenni, come purtroppo ci è imposto dalla limitatezza del tempo a disposizione, possiamo ridurre a tre le obiezioni che ne stanno alla base.
a) Anzitutto ci si appella alla libertà contro la legge, contro qualsiasi legge. E, per questo, ci si richiama al Vangelo. Effettivamente, il Vangelo è un richiamo alla preminente libertà dello spirito. Non si possono dimenticare le severe condanne del legalismo farisaico, pronunziate da Gesù in favore dell’amore e della libertà dei figli di Dio: Audistis quia dictum est . . . Ego autem dico vobis (Cfr. Matth. 5. 21 ss.). Tutta la sua predicazione, del resto, fu orientata alla interiore spiritualità, alla carità che libera dal giogo della costrizione. Le parole e l’esempio di Gesù sono rivolte qui: «Infatti - come ha sottolineato il Concilio nel citato Decreto - Cristo che è Maestro e Signore nostro, mite e umile di cuore, ha invitato e attratto i discepoli pazientemente. Certo ha sostenuto e confermato la sua predicazione con i miracoli per suscitare e confortare la fede negli uditori, ma senza esercitare su di essi alcuna coercizione . . . Conoscendo che la zizzania è stata seminata con il grano, comandò di lasciarli crescere tutti e due fino alla messe che avverrà alla fine del tempo. Non volendo essere un Messia politico e dominatore con la forza, preferì essere chiamato Figlio dell’Uomo che viene per servire e dare la sua vita in redenzione di molti (Marc. 10, 45); ed ha finalmente ultimato la sua rivelazione compiendo sulla croce l’opera della redenzione, con cui ha acquistato agli esseri umani la salvezza e la vera libertà» (Gal. 5, 18, 14). Di qui le scultorie dichiarazioni di San Paolo nelle lettere ai Romani e ai Galati e la sua dottrina polemica sulla libertà, quando, in contrasto con il legalismo giudaizzante, scriveva: «Si spiritu ducimini, non estis sub lege», o quando dettava il Codice dell’amore, alieno da ogni imposizione: «Omnis lex in uno sermone impletur: diliges proximum tuum sicut teipsum» (Gal. 5, 18, 14).
Tutto questo è verissimo. Ma è anche vero che l’insegnamento evangelico e apostolico non si ferma a questo punto. Lo stesso Gesù che predicò l’amore e proclamò l’interiorità e la libertà, ha dato prescrizioni morali e pratiche obbligando i suoi discepoli a fedele osservanza, e voluto, come ancora diremo, una autorità fornita di determinati poteri, al servizio dell’uomo.
A coloro che si appellano al Vangelo per difendere la libertà contro la legge, occorrerà dunque ricordare il significato polivalente del termine « legge »: quella mosaica è stata abrogata; quella naturale rimane in tutto il suo innato vigore, ed è supposta dal Nuovo Testamento; e come essa non priva l’uomo della sua libertà, ma ne è la guida intrinsecamente giusta, così la legge positiva, sempre sorretta o suggerita da quella naturale, tutela i beni umani, dispone e promuove il bene comune, garantisce, contro ogni eventuale interferenza ed abuso, quella inviolabile e responsabile autonomia dell’individuo, in forza della quale ciascun essere umano è capace di attuare fruttuosamente la sua personalità. Libertà e autorità non sono termini che si contrastano, ma valori che si integrano; ed il loro mutuo concorso favorisce ad un tempo la crescita della comunità e le capacità d’iniziativa e di arricchimento dei singoli membri.
Con il richiamo del principio di autorità e della necessità dell’ordinamento giuridico, nulla si sottrae al valore della libertà ed alla stima in cui essa deve essere tenuta; si sottolineano bensì le esigenze di una sicura ed efficace tutela dei beni comuni, tra i quali quello fondamentale dell’esercizio della stessa libertà, che solo una convivenza bene ordinata può adeguatamente garantire. La libertà, infatti, che cosa varrebbe all’individuo, se non fosse protetta da norme sapienti e opportune? Con ragione affermava il grande Arpinate: «Legum ministri magistratus, legum interpretes iudices, legum denique idcirco omnes servi sumus ut liberi esse possimus» (CICERONE, Pro Cluentio, 146).
La legge evangelica, infine, si riduce all’amore di Dio e del prossimo, ma si ramifica in tre direzioni: nella coscienza, che diventa più sviluppata e operante nella libertà vincolata dalla verità; nei molti precetti e virtù, che non coartano, ma esaltano la libertà personale nel rispetto di Dio, di se stessi, del prossimo; e nei carismi dello Spirito nel fedele, docile sempre tuttavia alla potestà pastorale e al suo servizio per l’edificazione dell’intero corpo nella carità (Cfr. Eph. 4, 16).
IL VANGELO ISTITUISCE E STABILISCE L'AUTORITÀ
b) Una seconda obiezione, che vorrebbe giustificare l’odierno atteggiamento antigerarchico, fa appello alla libertà contro l’autorità. Anche qui ci si richiama al Vangelo. Ma il Vangelo non solo non abolisce l’autorità, ma la istituisce, la stabilisce. La pone al servizio, sì, del bene altrui, ma non perché e in quanto sia derivata dalla comunità, quasi come sua serva, ma perché derivata dall’alto per governare e giudicare, originata da un positivo intervento della volontà del Signore. Infatti, Gesù ha voluto che il suo insegnamento non fosse soggetto alla libera interpretazione del singolo, ma affidato ad un potere qualificato (Cfr. Matth. 28, 16-20; Marc. 16, 15; Luc. 24, 45-48; Io. 20, 21-23); ha voluto che la sua comunità fosse strutturata e compaginata in unità, costituita di organi gerarchici; che fosse organismo sociale, spirituale e visibile, una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino (Cfr. Lumen gentium, 8). E perché fatto anche sociale, la Chiesa esige e postula delle strutture e delle norme esterne, con i caratteri propri del diritto: ubi societas, ibi ius.
Se, quindi, il primato è dello spirito e dell’interiorità, l’inserimento organico nel corpo ecclesiale e la sottomissione all’autorità resta pur sempre un elemento insopprimibile, voluto dallo stesso Fondatore della Chiesa. Ce lo ha ricordato il Concilio: «la Chiesa, . . . che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro, affidandone a lui e agli altri Apostoli la diffusione e la guida, e costituì per sempre colonna e sostegno della verità . . .(1 Tim. 3, 15) In questo modo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui . . .» (Lumen gentium, 8). Il Diritto Canonico consacra sì il primato dello spirito quale sua propria suprema lex, ma parimente risponde alla necessità inerente alla Chiesa come comunità organizzata. Esso gravita attorno ai valori spirituali; protegge e tutela scrupolosamente l’amministrazione dei Sacramenti, che sono al centro delle sue norme; vieta di amministrare il battesimo all’adulto che non sia «sciens et volens» (Can. 752); non vuole che entri e che neppure resti tra i ministri sacri chi non abbia liberamente scelto lo stato sacerdotale (Cann. 214 § 1, 1994 § 2); non considera valido il sacramento del matrimonio contratto senza il libero consenso (Can. 1087 § 1).
Ma insieme non tollera che sia alterato il deposito della Rivelazione (Cann. 1322-1323); che i poteri nella Chiesa cadano nella confusione, senza distinzione di ordini e di funzioni ministeriali (Cann. 108 §§ l-3; 948); che la libera iniziativa del singolo sconvolga l’ordine costituito dal Cristo e che le regole della communio fidei, sacramentorum et disciplinae siano retaggio ed oggetto di contrattazioni umane, promosse da sole iniziative di gruppi non rivestiti di responsabilità qualificate (Cann. 109, 218, 329). Il Diritto Canonico ubbidisce ad un precetto di fondo, che, come si esprime San Clemente nella sua prima lettera ai Corinti, parte da Dio e, tramite Gesù Cristo, è affidato agli Apostoli, i quali «poi fissarono la norma di successione, cosicché alla loro morte altri uomini provati ne raccogliessero il ministero» (1 Cor. 42-44, 2). La struttura organica e gerarchica contraddistingue quindi l’ordinamento canonico come legge costituzionale della Chiesa, così voluta da Cristo per il bene e la salvezza degli uomini, che, liberati a peccato, servi autem fatti Deo (Rom. 6, 22), sono chiamati a vivere in pienezza la vita dello spirito.
UN’ESPERIENZA SALDA E GLORIOSA
c) Una terza obiezione si appella alla libertà contro certe forme antiquate o troppo discrezionali, o troppo severe dell’esercizio della potestà giudiziaria. La discussione, in sede di revisione del Codice di Diritto Canonico, è aperta. Tutto quanto, ad esempio, si riferisce a messe in guardia, a condanne, a scomuniche porta la gelosa sensibilità odierna a pensare in termini di rifiuto, come di fronte a vestigia di un potere assolutistico ormai tramontato. Eppure non bisogna dimenticare che la potestà coercitiva è anch’essa fondata nell’esperienza della Chiesa primitiva, e già San Paolo ne fece uso nella comunità cristiana di Corinto (1 Cor. 5): basta la prospettiva di questa citazione, per far comprendere il significato pastorale di un provvedimento tanto severo, preso unicamente in vista della integrità spirituale e morale dell’intera Chiesa, e per il bene dello stesso colpevole: ut spiritus salvus sit in die Domini nostri Iesu Christi (Ibid. 5, 5).
Tale esercizio, nella forma e nella misura convenienti, è perciò al servizio del diritto della persona, come dell’ordine della comunità; esso rientra quindi nell’ambito della carità, e in questa luce va considerato e presentato, qualora circostanze gravi e proporzionate lo esigano per il bene comune, sia pure con la massima delicatezza e comprensione verso gli erranti. La sua applicazione pratica è allo studio, allo scopo di perfezionarla sempre di più, per adattarla alle esigenze del rispetto della persona umana, divenute oggi più severe e attente, e per inserirla così più armonicamente nel contesto della moderna realtà sociologica. Nessuno però vorrà contestare la necessità, l’opportunità e l’efficacia di tale esercizio, inerente all’essenza stessa della potestà giudiziaria, perché, come abbiamo detto, è anche esso espressione di quella carità, che è suprema legge nella Chiesa, e come dalla carità è mosso per la salvaguardia della comunità ecclesiale, così la carità ne fa comprendere la necessità a chi ne fosse oggetto, facendone a lui accettare con fruttuosa umiltà le penose conseguenze medicinali.
Vorremmo perciò non solo a voi, insigni estimatori della Legge e saggi interpreti delle sue regole, ma anche a tutti i Nostri figli ripetere l’invito del Concilio, nel citato Decreto sulla libertà religiosa, «ad adoperarsi per formare esseri umani i quali, nel pieno riconoscimento dell’ordine morale, sappiano obbedire alla legittima autorità e siano amanti della genuina libertà» (Dignitatis humanae, 8). E siamo assai lieti che l’odierno incontro ci abbia permesso di intrattenervi, sia pure frammentariamente, su di un problema tanto importante e sentito. A voi ripetiamo, col Nostro vivo compiacimento, l’esortazione paterna che ci sgorga dal cuore, in questa circostanza solenne e a Noi sempre tanto gradita: esercitate con alta coscienza cristiana il vostro ufficio; fate onore alla Chiesa, rispondendo con assoluta dedizione alla fiducia che essa ripone in voi; servite le anime, con umiltà, con amore e con disinteresse. La grazia del Signore vi accompagni sempre, e vi sia di luce quotidiana, vi infonda la forza necessaria, vi dia pace profonda.
È il Nostro augurio, che vi facciamo di tutto cuore in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario : e lo accompagniamo con la Nostra Apostolica Benedizione.
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