DISCORSO DEL SANTO PADRE PAOLO VI
DURANTE LA «VIA CRUCIS»
DAL COLOSSEO AL PALATINO
Venerdì Santo, 27 marzo 1970
Questa preghiera peregrinante sul cammino della Croce ci lascia alla fine molto pensosi. Avvertiamo d’essere noi stessi entrati nel disegno profetico di questo dramma doloroso; l’aveva predetto Gesù stesso: «quando sarò innalzato da terra, Io trarrò tutto a me» (Io. 12, 32). Noi ci sentiamo descritti dal testo biblico, con cui l’Evangelista Giovanni conclude il suo racconto su la crocifissione del Signore: «Guarderemo verso Colui che hanno trafitto» (Io. 19, 37).
Sì, noi stiamo a guardare. Per quanto atroce sia l’immagine di Gesù crocifisso, noi ci sentiamo attratti da questo Uomo del dolore; e il ribrezzo raccapricciante, che di solito suscita la visione del cadavere d’un giustiziato tutto piaghe e sangue, è superato da un fascino singolare, che fissa non solo i nostri occhi, ma ancor più i nostri animi su quella figura «senza alcuna bellezza, né splendore» (Cfr. Is. 53, 2). Noi siamo subito persuasi d’essere davanti ad una rivelazione, che va oltre l’immagine sensibile; la rivelazione intenzionale d’un simbolo, d’un tipo, d’una personificazione estrema della sofferenza umana. Gesù, il Cristo, ha voluto essere presentato così.
Perché così? oh! quale esplorazione è offerta alla nostra pietà, alla nostra scienza dell’uomo, alla nostra teologia! Non la possiamo certo qui consumare, ma solo, in alcuni punti, enunciare. Qui il dolore ci appare cosciente! la terribile passione era prevista. Lo strazio e il disonore della Croce era saputo! e fu voluto nella sua crudele interezza fino alla fine, senza i narcotici consueti, che mitigano la nostra sofferenza: l’ignoranza del se, del quando, del come verrà; ovvero il lenimento pietoso e sapiente dell’arte medica. Gesù è colui «che conosce l’infermità» in tutta la sua estensione, in tutta la sua profondità, in tutta la sua intensità, in tutta la sua terribilità, tanto da spremere sangue dalle sue vene nell’agonia spirituale del Gethsemani. E tanto basta per renderlo fratello d’ogni uomo che piange e che soffre; fratello maggiore, fratello nostro. Egli detiene un primato, che accentra in lui la simpatia, la solidarietà, la comunione d’ogni uomo paziente.
E poi: noi vediamo in questo sublime protagonista del dolore umano un’altra nota, anch’essa in lui rifulgente più che in ogni altro colpito dalle nostre pene: l’innocenza. Quando incontriamo un bambino che soffre, quando osserviamo qualcuno che alla sofferenza fisica o morale aggiunge lo strazio d’una domanda cieca, che sembra rimanere senza risposta: perché? perché questo disordine, perché questo inesplicabile oltraggio al diritto fondamentale dell’esistenza, vivere bene, quando senza apparente ragione infierisce l’esperienza del male? Mistero, sì, mistero è per noi il dolore innocente; ma l’incontro che facciamo di questo mistero nel divino Crocifisso, in Lui, il supremo, il vero innocente (Cfr. Luc. 23, 41) arresta almeno la bestemmia che verrebbe alle nostre labbra. Anche Gesù era innocente, era un agnello, era l’agnello di Dio, che umile, debole s’è lasciato condurre al macello (Is. 53, 7). Se è così, la domanda risorge, ma non più disperata e ribelle, ma avida ormai d’un presagito responso, prodigioso.
Ed è questo: Gesù è morto innocente, perché Lui lo ha voluto (Ibid.: Io. 10, 17, 18). Ma perché lo ha voluto? qui è la chiave di tutta questa tragedia: perché Egli ha voluto assumere sopra di sé tutta l’espiazione dell’umanità (Is. 53, 6; Io. 11, 51; 2 Cor. 5, 21); Egli si è offerto vittima in sostituzione nostra; Egli, sì, è «l’agnello di Dio che cancella il peccato del mondo» (Io. 1, 29); Egli si è sacrificato per noi; Egli si è dato per noi; Egli così ci ha redenti! Egli è così la nostra salvezza!
E perciò il Crocifisso incatena la nostra quasi allucinata attenzione: se Cristo ha assunto sopra di sé il debito dovuto alla giustizia di Dio per i miei falli, io sono corresponsabile, io sono colpevole del suo sangue! e poi la scoperta si fa gaudio, che esplode in riconoscenza e in amore: «Egli mi ha amato e si è sacrificato per me» (Gal. 2, 20).
E tutto si conclude nella vera scienza dell’amore, la quale noi porteremo da questo venerdì santo nella nostra vita: è il dolore cosciente, innocente, sofferto per amore, quello che redime e salva; come Cristo, bisogna darsi volontariamente, gratuitamente, e anche dolorosamente, per il bene altrui, per la redenzione dell’umanità, per la salvezza e per la pace del mondo. Così si ritorna afflitti, pensosi, coraggiosi, dopo la Via Crucis!
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