DISCORSO DI PAOLO VI
AL TRIBUNALE DELLA SACRA ROMANA ROTA
Venerdì, 28 gennaio 1972
È per noi sempre motivo di alti pensieri l’incontro personale con il nostro Tribunale della Sacra Romana Rota, in occasione dell’inaugurazione ufficiale del nuovo anno giudiziario; incontro distribuito nel suo triplice momento; dapprima con il venerato Decano in privato colloquio, poi con il Collegio dei Giudici, e quindi con tutti i membri del Tribunale stesso compresi gli Officiali e gli Avvocati nella piena sua assemblea, quale noi ora abbiamo davanti. Questo stesso modo di presentazione dimostra l’importanza attribuita nella Curia Romana a questo organo per il quale la Sede Apostolica esercita la sua potestà giudiziaria; e noi ricevendo la visita ch’esso ci rende, mentre ringraziamo dell’omaggio a noi espresso da così cospicua presenza e dalle nobili parole di Monsignor Decano, intendiamo onorare il Tribunale della Sacra Romana Rota, dimostrare la nostra stima alle persone che lo compongono, confermare la nostra fiducia nella funzione che gli è propria, rivendicare la competenza, che la costituzione della Chiesa nei termini della legge canonica, gli riconosce, e testimoniare con l’importanza da noi attribuitagli il culto alla giustizia, quale, in seno alla società ecclesiastica, è dovere, è amore, specialmente da parte nostra, professare.
Sì, noi onoriamo la vostra magistratura. La S. Scrittura, per le parole costitutive di S. Paolo, ce ne fa obbligo (1 Cor. 6, 1-11; e cfr. Matth. 18, 15-17); la tradizione, che rimonta a quella anteriore al nuovo Testamento, ci rende gelosi custodi ed esecutori del servizio, che nella Chiesa organizzata e visibile, qual è la nostra Chiesa cattolica, l’autorità responsabile, la gerarchia, deve prestare per la tutela del diritto d’ogni membro della comunità dell’amore quale appunto è la Chiesa come pure per l’osservanza d’ogni rispettivo dovere. E noi intendiamo oggi dare a questa Udienza precisamente questo riconoscimento del giusto rapporto fra Chiesa e Diritto canonico se pure qui ne restringiamo la considerazione alla vostra particolare provincia, quella giudiziaria, riaffermando la legittimità, la dignità, l’importanza della vostra funzione, non tanto per la stretta e parallela analogia, che l’amministrazione della giustizia ecclesiastica ha con quella civile, quanto per la sua originale derivazione dal disegno costituzionale divino della Chiesa Corpo Mistico di Cristo, animato dallo Spirito di libertà, di amore, di servizio e di unità, al quale disegno il recente Concilio ci ha richiamati con la sua dottrina ecclesiologica.
Si è tanto discusso circa l’esistenza d’un Diritto canonico, cioè d’un sistema legislativo, in seno alla Chiesa, fino a qualificare, non senza qualche biasimo e qualche ironia, di «giuridismo» ogni sua sollecitudine normativa, a squalificare perciò questo aspetto della vita ecclesiastica, quasi che le espressioni difettose dell’attività legislativa nella Chiesa giustificassero la riprovazione e l’abolizione di tale attività, in virtù di inesatte interpretazioni di certi passi scritturali (Cfr. Gal. 2, 16, 18; Rom. 4, 15). Non si riflette che «una comunità senza legge, lungi dall’essere o dal potere essere, in questo modo, la comunità della carità, non è mai stata e non mai sarà altro che la comunità dell’arbitrio» (L. BOUYER, L’Eglise de Dieu, p. 596). E non si osserva poi il fatto che non mai forse come al nostro tempo, tanto mal disposto verso il Diritto canonico per una certa abusiva interpretazione del recente Concilio come se avesse allentato i vincoli giuridici e gerarchici essenziali nella Chiesa, si è pronunciata una tendenza proliferatrice legislativa ad ogni livello ecclesiale per un impellente bisogno di sigillare in canoni di nuova fattura le innovazioni più varie, e talvolta perfino illogiche. Questo fatto, contenente senza dubbio anche propositi di sane riforme e di auspicabili aggiornamenti, che oggi la Chiesa non solo consente e guida, ma anche promuove, non ci lascia senza apprensione per le possibili incoerenze di queste novità giuridiche con la dottrina e con la norma vigenti nell’insegnamento della Chiesa; ed ancor più perché questa tendenza a mutare, secondo nuovi e discutibili principi, la prassi ecclesiale, passa facilmente dal campo giuridico al campo morale, e lo invade e lo sovverte con fermenti pericolosi; intaccando dapprima il concetto ovvio di diritto naturale, poi l’autorità della legge positiva, religiosa o civile che sia, perché esteriore all’autonomia personale o collettiva; e, affrancando in tal modo la coscienza da una chiara cognizione e da onesta ammissione dell’obbligazione morale oggettiva, la rende, diciamo, libera e sola, sì, ma cieco criterio, ahimé!, dell’operare umano, abbandonata così alla deriva, ed esposta all’opportunismo delle singole situazioni o agli impulsi istintivi, psico-somatici, senza più ordine autentico, né freno veramente personale, coonestati invece da un falso ideale di liberazione e da un sofistico attestato della così detta e dilagante moralità permissiva. Che cosa rimane del senso del bene e del male? che cosa rimane della nobiltà e della grandezza dell’uomo? Com’è vero che l’uomo senza legge non è più uomo! E com’è vero, praticamente, che la legge, senza un’autorità che la insegni, la interpreti e la imponga, facilmente si oscura, infastidisce e svanisce! E come la nostra libertà cristiana deve distinguersi da quella stigmatizzata dall’apostolo Pietro: «Liberi, sì, ma senza farvi della libertà un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio»! (1 Petr. 2, 16) Né valga a noi appellarci contro la necessità d’una legge alla libertà dello Spirito, o a «quella libertà (dalla legge giudaica) dalla quale Cristo ci ha liberati» (Gal. 5, 1). Perché proprio Lui, Cristo, ci ha pur detto: «Non crediate ch’Io sia venuto a abolire la legge, o i profeti; non sono venuto per abolire, ma per compiere» (Matth. 5, 17); e il compimento ne sarà l’assorbimento e l’esaltazione nel precetto che tutti li riassume, l’amore di Dio e l’amore del prossimo (Matth. 22, 37-40), e sarà il precetto nuovo, testamentario di Cristo: «Amatevi gli uni gli altri come Io vi ho amati» (Io. 13, 34). Facciamo eco, come vedete, alle sapienti affermazioni, testé pronunciate dal venerato Decano della Sacra Romana Rota.
Siamo arrivati alle sorgenti del Diritto canonico, che dovrà giustificarsi dal riferimento a questo principio evangelico, del quale tutta la legislazione ecclesiastica dovrà essere permeata, anche se l’ordine della comunità cristiana e la supremazia della persona umana, a cui tutto il Diritto canonico è rivolto, esigeranno l’espressione razionale e tecnica propria del linguaggio giuridico. Voi ne siete maestri.
E non vi sarebbe bisogno di aggiungere, dopo la difesa di prammatica, che abbiamo appena accennata per il Diritto canonico, al quale è dedicata la vostra austera funzione, se il Concilio non ci ricordasse una nota che deve pur inserirsi, se non nella lettera, nello spirito del suo esercizio, la nota pastorale, la quale ha caratterizzato quell’avvenimento e ne ha penetrato il grande tomo dei suoi documenti.
Anche il Diritto canonico, nella sua formulazione, nella sua interpretazione, nella sua applicazione, dovrà, dopo il Concilio, portare l’impronta di quella nota pastorale, che ci sembra debba imprimere alla legge della Chiesa un carattere più umano, ove ce ne fosse bisogno, più manifestamente sensibile alla carità, che tale legge deve promuovere e tutelare nella comunità ecclesiale e nei confronti della società profana; più chiaramente memore della natura dell’autorità ecclesiastica, essere cioè essa servizio, ministero, amore; e più esplicitamente rivolta alla difesa della persona umana ed alla formazione del cristiano alla partecipazione comunitaria della vita cattolica.
Tanto si è già scritto e discusso a questo riguardo; e voi certamente avrete già individuato i punti che, in virtù del Concilio, possono riguardare la prassi del vostro Tribunale e dell’esercizio della funzione giudiziaria in genere nella Chiesa; come pure i perfezionamenti legislativi circa il diritto matrimoniale, di cui principalmente si occupa la Sacra Rota, perfezionamenti a cui si è già posto mano, come, ad esempio, con le nuove norme relative ai matrimoni misti, senza per questo che menomamente le leggi inviolabili della famiglia siano alterate, ché anzi dalla sapiente tutela ed applicazione del vostro autorevole Tribunale, come da ogni altro nella Chiesa cattolica, devono avere, a bene di tutti, inalterato e provvido suffragio.
Che, se con la intemerata probità della vostra vita personale, con la consumata conoscenza delle scienze canoniche, con l’umano e cristiano interesse per la sollecita e rigorosa trattazione delle cause a voi affidate, e con la religiosa pietà con cui circondate questa Sede Apostolica, voi continuerete a compiere la vostra difficile e delicata funzione, una missione voi adempirete, una testimonianza darete alla giustizia e alla carità di questa Chiesa Romana, e sarà per voi, oltre che l’adesione ed il plauso del mondo cattolico, e quello, noi crediamo, del mondo forense, la nostra fiducia, la nostra riconoscenza, la nostra Apostolica Benedizione.
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