DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO XII
ALLE POPOLAZIONI CADUTE
SOTTO L'OCCUPAZIONE STRANIERA
Domenica, 2 giugno 1940
Agli Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali.
Sempre dolce e cara ritorna all’animo Nostro l’aurora di questo giorno consacrato alla festa di S. Eugenio I, fulgidissimo lume di Pontefice intemerato e zelante, datoCi a speciale protettore celeste nel primo albore della Nostra vita, in quell’ora trasumanante dello spirito in cui fummo rigenerati nelle acque battesimali. A un così santo Successore di Pietro, fin dal dì che, per arcano disegno di Dio, senza alcun Nostro merito, fummo elevati al Soglio Pontificio, Noi levammo lo sguardo come a Nostro alto Patrono ed esemplare, che Ci scorgesse e illuminasse nel supremo ministero affidatoCi. Il suo nome tutelare oggi rinnova in Noi la gioia serena e profonda di vedervi qui adunati, Venerabili Fratelli e diletti Figli, che con sì vivo zelo e devozione Ci porgete il valido aiuto della vostra sagace esperienza e provata saggezza; e la solennità dell’invocarlo e festeggiarlo è insieme per Noi occasione d’intrattenerCi con voi in quella maniera aperta e familiare, che, per essere un bisogno del Nostro cuore, è in pari tempo consentanea alla particolare gravità dell’ora presente.
Negli auguri nobili e delicati, che il venerato e carissimo Cardinale Decano Ci ha offerti in nome vostro, e nelle preghiere, che per Noi elevate all’Onnipotente, abbiamo sentito rinnovare gli accorati accenti di intensa e profonda mestizia per le angustie e le minacce del tempo che volge ed espone tanti figli della Santa Chiesa di Cristo a indicibili prove e sofferenze, a insistenti pericoli spirituali, a cui non può rimanere insensibile un cuore di Sacerdote e di Pastore. Che in giorni così procellosi voi, cui circonda di responsabilità tanto alta la vostra stretta e immediata partecipazione alle Nostre cure e sollecitudini, alle gioie e amarezze Nostre, vi raccogliate al Nostro fianco e vi uniate sempre più al Vicario di Cristo, è certo per Noi lieta cagione di conforto; di che vi esprimiamo con intima commozione i Nostri più vivi ringraziamenti.
E Ci avesse Iddio, nei suoi inscrutabili e sempre giusti consigli per il governo del mondo, concesso di rattenere in qualche modo il corso cruento degli eventi! Ora che si è compiuto il nono mese della guerra e più impetuosa e sterminatrice sui campi insanguinati e sui mari infidi, sotto i fulmini dei volanti navigatori, imperversa la lotta e si estende anche a popoli estranei alla contesa, si riaffacciano al Nostro spirito quelle agitate settimane, oscillanti tra il succedersi di timori e speranze, quando Noi, attratti ancora dai pur lievi barlumi di pace, consapevoli dei doveri del Nostro Apostolico ministero, seguendo gl’impulsi del Nostro cuore, consacravamo ogni Nostro pensiero e sforzo al benessere di tutti i popoli, adoperandoci per dissuadere i reggitori dal ricorrere alla violenza e per guadagnarli all’idea di un regolamento pacifico, giusto, onorevole e commisurato al senso di responsabilità davanti agli uomini e davanti a Dio.
Se oggi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, rivolgiamo intorno lo sguardo e contempliamo l’Europa, per divina vocazione terra della fede e della civiltà cristiana, dilaniantesi col ferro e col fuoco; se consideriamo le vaste distruzioni e rovine e le crudeli sofferenze che vengono accumulandosi e diffondendosi in tante floride regioni e campi che già davano pane e tranquillità a tanto popolo; se ponderiamo i tristi effetti economici, sociali, ideali, religiosi e morali e le dure ripercussioni che al prolungarsi e inacerbirsi fieramente del conflitto conseguono anche di là dagli oceani; se tutto questo riguardiamo e pesiamo, Ci si apre una visione che profondamente Ci accora e grava lo spirito, e Ci fa levare gli occhi al cielo, invocando la immensa pietà di Dio sui miseri figli degli uomini, divisi tra loro da contrastanti idee ed interessi, traviati dall’inimicizia, dall’odio, dal rancore, dalla vendetta, in un mare di sciagure e di lutti. È forse questa l’ora tremenda, in cui Dio ne pesa i meriti e i demeriti? Noi chiniamo la fronte innanzi all’impenetrabile giudizio divino; e, riconcentrandoci in Noi stessi e nella Nostra coscienza, Ci sentiamo francheggiati di avere, nell’azione Nostra pacificante, seguito la via regia, la quale conduce alla serenità interiore e alla pace esterna, al rispetto dei sentimenti umani, al senso della vera giustizia e della condiscendente equità, all’oggettività e ad un’equa stima degl’interessi di tutti i popoli.
Ormai la presente guerra ha raggiunto tutta la sua intensità di urti campali e di progresso distruttore, e le sue rovine salgono a proporzioni gigantesche; ma non così che i danni esterni e materiali possano venire in paragone del collasso intimo e della distruzione del patrimonio spirituale e morale. Quale segno più eloquente e spaventoso del progressivo annientamento e travolgimento dei valori spirituali, che il crescente dissolversi delle norme del diritto, sostituito dalla forza, che comprime, incatena e soffoca gli impulsi etici e giuridici? E non ne è forse un chiaro argomento il fatto che sono state trascinate nell’uragano della guerra regioni e genti, che erano più di altre tradizionali fautrici della pace?
Anche sotto il peso delle dure necessità della lotta è norma di prudenza rivolgere lo sguardo dal turbinoso presente verso l’alba di un migliore e più ordinato avvenire, né dimenticare le parole tanto luminose di S. Agostino: « Non pax quaeritur ut bellum excitetur, sed bellum geritur, ut pax acquiratur. Esto ergo etiam bellando pacificus, ut eos quos expugnas ad pacis utilitatem vincendo perducas » (1). Se Noi, da questa saggia massima animati, e non altrimenti da ciò che abbiamo esposto in altre circostanze, specialmente nella Nostra Allocuzione di Natale, Venerabili Fratelli e diletti Figli, insistiamo nuovamente e scongiuriamo tutte le parti avverse a ricordarsi sempre di quei doveri di umanità che non scemano del loro valore neppure in faccia al diritto e alla morale di guerra, — onde lo stesso grande Dottore esclamava che « fides quando promittitur, etiam hosti servanda est, contra, quem bellum geritur »(2) —; non di parte è la parola e l’opera Nostra; ma compiamo un dovere, che Ci dettano la verità e l’amore, che C’impongono il bene e la prosperità di tutti, che il seggio di Padre comune dei redenti da Cristo Ci commette; e contribuiamo dal canto Nostro, coi mezzi fornitiCi dal Nostro ministero Apostolico, a non far torcere la vista dalle norme ideali e dai presupposti essenziali di una pace che vuol essere giusta, onorevole e duratura.
Né crediamo lecito in questa occasione di rinunciare a effondere il Nostro cordoglio nel vedere come il trattamento verso i non combattenti, in più di una regione, sia lungi dall’essere conforme e consentaneo alle norme dell’umanità. Dio Ci è testimonio che, nell’affermare questa doverosa verità, non Ci muove né spirito di parte né riguardo a persona alcuna. Da considerazioni personali non può essere guidato il giudizio morale di un’azione. Nessun popolo è immune dal pericolo di vedere alcuni dei suoi figli lasciarsi trasportare dalle passioni e sacrificare al demone dell’odio. Ciò che soprattutto importa è il giudizio, che la pubblica autorità dà di tali deviazioni e tralignamenti dello spirito di lotta, e la prontezza a farli cessare.
Onde spetta al degno nome dell’autorità medesima che con l’ampliarsi i campi della guerra oltre i propri confini non venga meno la imperturbata dignità della ragione che detta quei sommi principii del promuovere il bene e del contenere il male, i quali rafforzano e onorano gli ordinamenti di chi comanda, e conciliano e rendono più incline e pronto, chi vi è soggetto, a piegare la volontà e l’opera per il comune interesse. E perciò quanto più si estendono i territori che il conflitto sottopone a dominazione estranea, tanto più urgente diviene il debito di porre l’ordinamento giuridico, che in essi si mette mano ad applicare, in armonia con le disposizioni del diritto delle genti e soprattutto con le esigenze dell’umanità e dell’equità. Né è da disconoscere che, accanto alle precauzioni di sicurezza giustificate da vere necessità di guerra, il bene delle popolazioni cadute sotto la occupazione non cessa di rimanere una norma obbligatoria per l’esercizio del pubblico potere. Giustizia ed equità richieggono che esse vengano trattate così come, in caso analogo, la Potenza occupante desidererebbe di veder trattati i propri connazionali.
Da questi principii elementari di sana ragione non è malagevole, a chi voglia elevarsi sopra le passioni umane, di trarre le conseguenze per disporre un regolamento delle questioni speciali riguardanti i paesi occupati, che sia conforme non meno alla coscienza umana e cristiana che alla vera sapienza di Stato: il rispetto della vita, dell’onore e della proprietà dei cittadini, il rispetto della famiglia e dei suoi diritti; e, dal lato religioso, la libertà dell’esercizio privato e pubblico del culto divino e della assistenza spirituale in una maniera conveniente al rispettivo popolo e alla sua lingua, la libertà della istruzione ed educazione religiosa, la sicurezza dei beni ecclesiastici, la facoltà ai Vescovi di corrispondere col loro clero e coi loro fedeli nelle cose concernenti la cura delle anime.
Quanto a Noi, « nemini dantes ullam offensionem, ut non vituperetur ministerium nostrum » (3), desiderosi almeno di lenire le conseguenze della guerra, rivolgiamo il Nostro amore paterno a tutti i Nostri figli e figlie, sia delle popolazioni germaniche, sempre a Noi care, in mezzo alle quali trascorremmo lunghi anni della Nostra vita, sia degli Stati alleati, cui pure Ci legano grati e pii ricordi, memori anche con costante sollecitudine della tanto provata e a Noi diletta Nazione polacca e di altri nobili popoli, alle cui tragiche sofferenze preghiamo l’Altissimo che non tardi a venire l’auspicato conforto. Del resto, riponiamo inconcussa la Nostra fiducia in Dio, il quale, come sapientemente governa gli uomini e gli eventi, così regge dal cielo la sua Chiesa, a cui diede l’impero sulle anime e, nel cammino inarrestabile assegnatole di verità e di virtù divina, insegnò a procedere « per arma iustitiae a dextris et a sinistris, per gloriam et ignobilitatem, per infamiam et bonam famam » (4), beneficando chi la calunnia e chi la loda, amando chi l’ama e chi l’odia, pregando per chi la perseguita e per chi la protegge, chiamando tutte le genti nell’unico ovile di Cristo, supplicando il cielo per i re e per i potenti, « ut quietam et tranquillam vitam agamus in omni pietate et castitate » (5), e pacificando nel suo viaggio verso l’eternità le discordie e i contrasti del mondo.
Troppo noti e aperti Ci sono, Venerabili Fratelli e diletti Figli, i pericoli e gl’incentivi spirituali e morali, che in questi giorni tempestosi minacciano più che mai nelle anime i principii cristiani di fede e di vita. Una disordinata colluvie di opinioni nuove e contrastanti, impressioni e stimoli di mal vagliate tendenze, eccitano le masse popolari, penetrano anche fra i ceti, docili in tempi più tranquilli, a lasciarsi illuminare e reggere da limpide e sagge norme, e impongono alla coscienza cristiana una continua ed indefessa vigilanza per rimaner fedele alla sua dirittura e vocazione. Attratte nel vorticoso e passionato turbinio degli eventi, troppo spesso le menti corrono il pericolo di avere abbuiate e indebolite la facoltà e la prontezza a giudicarli secondo gl’incrollabili e puri dettami della legge divina. Eppure il cristiano, forte della sua fede, intrepido nel proprio dovere, se deve trovarsi preparato a partecipare agli avvenimenti, ai compiti e ai sacrifici del giorno, non meno sollecito e pronto deve essere a ricusarne gli errori; di guisa che, quanto più scorge addensarsi le tenebre dell’incredulità e del male, tanto più coraggioso e presto — anche in mezzo alle prove — conviene che si dimostri nel far risplendere la fulgida luce di Cristo, guida agli erranti, direttrice e scorta verso un ritorno al patrimonio spirituale da tanti dimenticato o abbandonato. Tetragono agli avvolgimenti altrui, camminerà e si avanzerà senza sviarsi nella notte della caligine terrena, ma tenderà lo sguardo verso le stelle splendenti nel firmamento dell’eternità, consolante termine e premio della sua speranza. Se più duri e gravosi saranno i sacrifici chiesti all’umanità, più vigorosa e più operosa nutrirà e alimenterà nel proprio animo la erompente forza del precetto divino dell’amore e la brama e l’ansia di farsene la guida dell’intenzione e dell’azione. Non si piegherà né cadrà pusillanime innanzi alla asprezza dei tempi; anche quando i cimenti sembrino precludere ogni via di scampo, nei cimenti stessi sentirà crescersi le forze al bisogno dalla grandezza della sua missione. E se lo spirito superbo di un materialismo ateo gli rivolgerà la domanda: «Ubi est spes tua? », allora, non pavido né del presente né del futuro, risponderà coi giusti del tempo antico: «Nolite ita loqui; quoniam filii sanctorum sumus, et vitam illam expectamus, quam Deus daturus est his, qui fidem suam nunquam, mutant ab eo » (6).
La fede e la fedeltà immutabile verso Dio è il fondamento della speranza degli eroi cristiani, di quella speranza che non confonde. A tutti coloro che hanno visto la loro felicità quaggiù schiantarsi e distruggersi dalla bufera della guerra, a coloro che gemono in preda di incredibili sofferenze esteriori e interiori, ai viventi doloranti fratelli dei primi credenti in Cristo, Noi additiamo le schiere degli eroi e delle eroine antiche e moderne; e gridiamo con l’Apostolo delle genti: « Fratres … non contristemini, sicut et ceteri, qui spem non habent » (7). Non è forse consolazione fortissima la speranza propostaci, che teniamo come àncora sicura e stabile dell’anima, e che penetra sino di là dal velame del cielo, dove entrò precursore per noi Gesù8? In questo mese consacrato al Divin Cuore di Lui, unico Maestro dell’umanità, Maestro di mitezza, che vince ogni atrocità spietata, e di umiltà, che non calpesta il meschino caduto, possano i dolori e i sacrifici, generosamente sopportati da coloro che all’usbergo della fede accoppiano l’àncora della speranza, infondere loro una forza nuova più pura, affinché da questa terra lavorata dai patimenti germogli e fiorisca un consolidamento morale più franco e costante, secondo la parola dell’Apostolo: « Omne gaudium existimate, fratres mei, cum in tentationes varias incideritis; scientes quod probatio fidei vestrae patientiam operatur. Patientia autem opus perfectum habet » (9). È l’alto grado del gaudio del soffrire, a cui s’innalza la pazienza, salendo per i gradi del soffrire rassegnato e del soffrire volentieri.
Ma la pazienza è pure un gran dono di Dio, e diventa perseveranza, quando non vien meno, ma da pari accompagna il crescere dei patimenti e delle sventure. Onde la pazienza si unisce anche alla perseverante preghiera, inculcataci dallo stesso Divin Redentore. Non possiamo quindi desistere dall’esortare quanti sulla terra sono figli della Chiesa di Cristo a porgere con santa violenza le loro instancabili preghiere al Cuore del Divin Salvatore, Re della pace, perché effonda i fiumi della mitezza e della umiltà sopra i popoli esasperati nella contesa, perché raffreni le stragi che insanguinano i campi e le città, perché ai reggitori delle nazioni ispiri quei grandi pensieri di moderazione e di pace che vengono dal cuore, dove Dio pose per fondamento la bontà con la somiglianza divina, sicché cessi la cruenta lotta e la tragica distruzione del benessere dei popoli, e fra tante rovine e lacrime si segni e si apra il sentiero verso il tempio di una pace sana, sigillata non dall’odio e dalla vendetta, ma dall’impronta della nobile maestà della giustizia.
Con questa brama nel cuore e questa preghiera sulle labbra, Noi vi impartiamo, Venerabili Fratelli e diletti Figli, come pegno di grazia e consolazione celeste, dalla pienezza del Nostro cuore, l’Apostolica Benedizione.
(1) S. Aug., Epist. 189, n. 6 – Migne PL., vol. 2, col. 856.
(2) Loc. cit.
(3) 2 Cor.,VI, 3.
(4) 2 Cor., VI, 7-8.
(5) 1 Tim., 11, 2.
(6) Tob., 11, 17-18.
(7) 1 Thess., IV, 13.
(8) Hebr., VI, 20.
(9) Iac., 1, 2-4
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