DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO XII
AL TRIBUNALE DELLA SACRA ROMANA ROTA
Mercoledì, 29 ottobre 1947
Ci torna particolarmente gradito il vedervi di nuovo qui adunati intorno a Noi, diletti figli, e il rivolgervi il Nostro riconoscente saluto, dopo aver raccolto dalle labbra del vostro venerato Decano la testimonianza del sempre crescente e arduo lavoro compiuto nello scorso anno da cotesto Sacro Tribunale. Anno per la Chiesa di conforti e di amarezze, di conquiste e di lotte, nella sempre mutevole e contraddittoria, ma anche pertinace opposizione del mondo contro di lei, secondo la parola del Redentore: «Si mundus vos odit, scitote quia me priorem vobis odio habuit».[1]
Così, ciò che ieri era per molti un dovere della Chiesa e si esigeva da lei con modi anche incomposti, di resistere cioè alle ingiuste imposizioni di governi totalitari oppressori delle coscienze e di denunciarle e condannarle dinanzi al mondo (il che essa non mancava mai di fare, ma di proprio e libero impulso e nelle debite forme), oggi è per quegli stessi uomini, saliti al potere, delitto e illecita intromissione nel campo proprio dell'autorità civile. E i medesimi argomenti, che i governi tirannici di ieri adducevano contro la Chiesa nella sua lotta per la difesa dei diritti divini e della giusta dignità e libertà umana, oggi sono usati dai nuovi dominatori per combattere la perseverante azione di lei a tutela della verità e della giustizia. Ma la Chiesa cammina diritta per la sua via, sempre tendendo al fine per cui è stata istituita dal divino suo Fondatore, cioè di condurre gli uomini, attraverso i sentieri soprannaturali della virtù e del bene, alla felicità celeste ed eterna: con che al tempo stesso promuove anche la pacifica e prospera convivenza umana.
Questo pensiero Ci riporta naturalmente al terzo punto del tema da Noi proposto negli ultimi due anni alla vostra considerazione. Perciò, avendo Noi già trattato delle differenze fra l'ordinamento giudiziario ecclesiastico e il civile per ciò che riguarda così l'origine e la natura, come l'oggetto dell'uno e dell'altro, Ci resta oggi da parlare del fine essenzialmente diverso delle due società.
Questa ultima differenza fondata sul fine esclude senza dubbio quella forzata sottomissione e quasi inserzione della Chiesa nello Stato, contraria alla natura stessa di ambedue, che ogni totalitarismo tende, almeno sul principio, a conseguire. Essa tuttavia non nega certamente qualsiasi unione fra le due società, e ancor meno viene a determinare fra loro una fredda e dissociante aura di agnosticismo e d'indifferenza. Chi volesse intendere così la retta dottrina che la Chiesa e lo Stato sono due distinte società perfette, andrebbe errato. Egli non potrebbe spiegare le molteplici forme, proprio del passato e del presente, e, sebbene in diverso grado, fruttuose, di unione fra le due potestà; non terrebbe soprattutto conto che Chiesa e Stato risalgono alla medesima fonte, Dio, e che ambedue hanno cura del medesimo uomo, della sua personale dignità naturale o soprannaturale. Tutto ciò non poteva né volle trascurare il Nostro glorioso Predecessore Leone XIII, allorchè nella sua Enciclica Immortale Dei del 1o Novembre 1885 chiaramente delineava, in base al loro diverso fine, i limiti delle due società ed osservava che allo Stato spetta prossimamente e massimamente di curare gl'interessi terreni, alla Chiesa di procacciare i beni celesti ed eterni degli uomini,[2] in quanto cioè questi abbisognano di sicurezza e di appoggio da parte sia dello Stato per le cose terrene, sia della Chiesa per le eterne.
Non vediamo noi forse in ciò, sotto alcuni aspetti, una qualche analogia con le relazioni fra il corpo e l'anima? L'uno e l'altra agiscono congiuntamente in tal modo che il carattere psicologico dell'uomo si risente ad ogni istante del suo temperamento e delle sue condizioni fisiologiche, mentre, viceversa, le impressioni morali, le commozioni, le passioni si riflettono sulla sensibilità fisica così potentemente, che l'anima modella anche i lineamenti del volto, su cui quasi imprime la sua immagine.
Esiste dunque quella differenza del fine, differenza che esercita un diverso e profondo influsso sulla Chiesa e sullo Stato, principalmente sul potere supremo di ambedue le società, e quindi anche sulla potestà giudiziaria, la quale non ne è che una parte e una funzione. Indipendentemente dalla circostanza, se i singoli giudici ecclesiastici ne siano o no consapevoli, tutta la loro attività giudiziaria è e rimane inclusa nella pienezza di vita della Chiesa col suo alto fine: caelestia ac sempiterna bona comparare. Questo finis operis della potestà giudiziaria ecclesiastica le dà la impronta oggettiva e ne fa una istituzione della Chiesa come società soprannaturale. E poiché questa impronta deriva dai fine ultraterreno della Chiesa, la potestà giudiziaria ecclesiastica non cadrà mai nella rigidezza e nella immobilità, a cui istituti puramente terreni, per timore della responsabilità, o per indolenza, od anche per una malintesa cura di tutelare il bene, certamente alto, della sicurezza del diritto, vanno facilmente soggetti.
Ciò non vuol dire però che nell'ordinamento giudiziario ecclesiastico vi sia un campo lasciato libero al solo arbitrio del giudice nel trattamento dei singoli casi. Questi errori di una pretesa funesta «vitalità» del diritto sono tristi prodotti del nostro tempo in attività estranee alla Chiesa. Non da un anti-intellettualismo oggi abbastanza diffuso, la Chiesa rimane ferma al principio: il giudice decide nel singolo caso secondo la legge; principio il quale, senza favorire un eccessivo «formalismo giuridico» di cui in altra occasione (1o Ottobre 1942) discorremmo, respinge però quell'«arbitrio soggettivo», che verrebbe a porre il giudice non più sotto, ma sopra la legge. Comprendere rettamente la norma giuridica nel senso del legislatore e rettamente analizzare il singolo caso in ordine alla norma da applicare, questo lavoro intellettuale è una parte essenziale della concreta attività giudiziaria. Senza tale procedimento la sentenza del giudice sarebbe un semplice comando, e non ciò che la parola «diritto positivo» vuole esprimere, vale a dire nel caso singolo, e quindi concreto, mettere ordine nel mondo, che come un tutto è stato dalla sapienza di Dio creato nell'ordine e per l'ordine.
Non è forse questo campo dell'attività giudiziaria ricco di vita? Ancor più: la legge ecclesiastica è volta al bene comune della società ecclesiastica, e quindi inseparabilmente legata al fine della Chiesa. Mentre dunque il giudice applica la legge al caso particolare, coopera a compiere la pienezza del fine che vive nella Chiesa. Quando invece si vede posto di fronte a casi dubbi, ovvero quando la legislazione lascia a lui la libertà, il legame dell'ordinamento giudiziario ecclesiastico col fine della Chiesa lo aiuterà anche allora a trovare e a motivare la retta decisione e a preservare il suo ufficio dalla macchia del puro arbitrio.
Comunque, perciò, la relazione della potestà giudiziaria ecclesiastica a quel fine si consideri, essa apparisce come la più sicura garanzia della vera vitalità delle sue decisioni, e mentre costituisce il giudice ecclesiastico in un ufficio voluto da Dio, gl'ispira quell'alto senso di responsabilità che è anche nella Chiesa la indispensabile tutela, superiore a qualsiasi ordinamento legale, della sicurezza del diritto.
Con ciò non intendiamo in alcun modo di non riconoscere le difficoltà pratiche che, nonostante tutto, la vita moderna causa anche alla potestà giudiziaria ecclesiastica, sotto vari aspetti anzi ancor più che nel campo civile. Si pensi soltanto ad alcuni beni spirituali, di fronte ai quali il potere giudiziario dello Stato si sente meno legato od anzi si mantiene consapevolmente indifferente. Tipici sono in tal senso i casi dei delitti contro la fede o dell'apostasia, quelli riguardanti la «libertà di coscienza» e la «tolleranza religiosa», come anche i processi matrimoniali. In questi casi la Chiesa, e quindi anche il giudice ecclesiastico, non può adottare l'atteggiamento neutrale degli Stati di confessione religiosa mista e ancor meno quello di un mondo caduto nella incredulità e nell'indifferentismo religioso, ma deve lasciarsi guidare unicamente dal fine essenziale datole da Dio.
In tal guisa sempre di nuovo noi incontriamo la profonda differenza che la diversità del fine determina fra la potestà giudiziaria ecclesiastica e la civile. Senza dubbio nulla osta a che l'una si valga dei risultati conseguiti dall'altra, non meno nelle cognizioni teoriche, che nelle esperienze pratiche; tuttavia sarebbe errato il voler trasferire meccanicamente gli elementi e le norme dell'una nell'altra, e tanto più il volerle addirittura eguagliare. La potestà giudiziaria ecclesiastica e il giudice ecclesiastico non hanno da cercare altrove il loro ideale, ma debbono portarlo in se stessi; debbono aver sempre presente al loro sguardo che la Chiesa è un organismo soprannaturale, cui è insito un principio vitale divino, principio che deve muovere e dirigere anche la potestà giudiziaria e l'ufficio di giudice ecclesiastico.
Giudici nella Chiesa sono in virtù del loro ufficio e per volere divino i Vescovi, dei quali dice l'Apostolo che «sono stati costituiti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio».[3] Ma il «reggere» include il «giudicare» come una necessaria funzione. Dunque secondo l'Apostolo lo Spirito Santo chiama i Vescovi non meno all'ufficio di giudice che al governo della Chiesa. Dallo Spirito Santo deriva perciò il carattere sacro di quell'ufficio. I fedeli della Chiesa di Dio «acquistata da lui col proprio sangue» sono coloro ai quali si riferisce l'attività giudiziaria. La legge di Cristo è fondamentalmente quella, secondo cui nella Chiesa si pronunziano le sentenze. Il principio vitale divino della Chiesa muove tutti e tutto ciò, che è in lei, verso il suo fine, quindi anche la potestà giudiziaria e il giudice: caelestia ac sempiterna bona comparare.
Perciò, voi che avete l'ufficio di giudici in cotesto Tribunale ordinario della Sede Apostolica, siate consci della singolare vostra dignità. Non nello spirito della pretensione e dell'orgoglio, ma nel semplice ed umile senso dell'adempimento di un sacro dovere. Allora l'ideale del vostro ufficio sarà in voi rinvigorito, meno come frutto del vostro proprio sforzo, che come grazia dello Spirito Santo.
Ma la Nostra parola anche in questa ricorrenza vuol essere soprattutto la espressione della Nostra gratitudine per il lavoro da voi prestato, e specialmente per lo spirito di religioso sentimento, di cui esso è una chiara manifestazione. Le aspre critiche di contrastante contenuto e procedenti da opposti principî - come quelle mosse contro di voi - sono già per se stesse ordinariamente un segno che la ragione è dalla parte di chi ne è l'oggetto; e siccome nel caso vostro questa presunzione è convalidata dagli eloquenti dati statistici presentati dal vostro Decano, ciò conferma agli occhi di tutti gli onesti che il coscienzioso rispetto della legge di Dio, il fermo proposito di tutelare la verità e la giustizia e quella «benignitas et humanitas»,[4] portata al mondo dal Salvatore divino e propria di coloro che hanno a cuore la salute delle anime, sono veramente la stella polare che guida tutta la vostra attività di giudici.
A quella stella tenete sempre fisso lo sguardo, senza lasciarvi turbare dai tempestosi flutti delle umane passioni e degli attacchi nemici, paghi e lieti del testimonio della vostra coscienza nel contribuire con l'opera vostra alla «edificazione del corpo di Cristo».[5]
Implorando su di voi l'abbondanza della grazia divina, fecondatrice del vostro lavoro, v'impartiamo di cuore, diletti figli, la Nostra paterna Apostolica Benedizione.
[1] Gv 15, 18.
[2] ASS 18 (1885-1886), p. 466.
[3] At 20, 28.
[4] Tt 3, 4.
[5] Ef 4, 12.
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