DISCORSO PREPARATO DA SUA SANTITÀ PIO XII
IN OCCASIONE DI UNA SOLENNE COMMEMORAZIONE
DI PAPA BENEDETTO XIV*
Per la prima quindicina di novembre del 1958 il Sommo Pontefice Pio XII dí v. m. aveva indetto — ricorrendo, nello scorso anno, il II Centenario dalla morte — una solenne commemorazione del Papa Benedetto XIV. All'omaggio in onore dell'insigne Pontefice, legislatore e giurista, avrebbero partecipato le rappresentanze del Sacro Collegio, della Prelatura, dei Tribunali e degli Uffici della Curia Romana; una delegazione dell'Arcidiocesi di Bologna, che il Cardinale Prospero Lambertini resse con eccelsi meriti; insigni personalità degli Atenei, soprattutto delle Facoltà Giuridiche, con alunni di queste discipline. Nel suo Discorso commemorativo Pio XII presenta, in modo completo, e per l'attività dell'altissimo ministero ecclesiastico e per l'incancellabile impronta lasciata nel campo degli ordinamenti, delle procedure e della vita della Chiesa in genere, la molteplice attività di Benedetto XIV. Il Discorso — che senza dubbio avrebbe avuto grande eco, specialmente nel ceto degli studiosi — chiude degnamente la lunga serie dell'insegnamento del compianto e venerato Pontefice Pio XII.
La ricorrenza due volte centenaria dell'anno di morte del Papa Benedetto XIV vi ha qui adunati, Venerabili Fratelli e diletti Figli, col lodevole intento di tributare la testimonianza della ammirazione e della gratitudine alla memoria di questo Pontefice, il più grande del suo secolo, e al quale la storia della Chiesa continuerà ad assegnare un meritato posto tra i più insigni Successori di Pietro.
Se non fu mai stimata vana dai popoli civili la consuetudine di mantenere vivo il ricordo degli uomini grandi e delle loro imprese, sottraendoli con scritti e monumenti alla inevitabile legge dell'oblio, molto più giusta e feconda è la sollecitudine, con cui in ogni tempo la Chiesa ha inteso di serbare intatta la memoria dei suoi figli più illustri, poiché unica e comune è l'opera che impegna tutte e singole le generazioni cristiane alla edificazione del Corpo di Cristo (cfr. Eph. 4, 12) nel tempo per l'eternità. È pertanto difficile indicare una istituzione, che, come la Chiesa, nulla intenda di perdere dell'eredità spirituale del passato, che con maggior premura tenga in alto onore gli studi storici, e che, nella ricchezza propria delle sue tradizioni e dei monumenti e col culto dei suoi Santi, sappia rendere vivo ed operante ciò che fu, intrecciandolo, come trama logica dal disegno unitario, a ciò che è e sarà.
Tale considerazione abbiamo desiderato di porre all'inizio del Nostro dire, non tanto per giustificare la commemorazione di un Pontefice, scomparso dalla scena di questo mondo or sono due secoli, quanto per mettere subito in risalto la somma benemerenza e il tratto caratteristico della persona e dell'opera dì lui, riconosciuto quale Maestro e ordinatore dei processi di Beatificazione e Canonizzazione, il cui istituto, formatosi lentamente fin dai primordi della Chiesa, si propone di designare alla imitazione delle generazioni future uomini perfetti nella vita e nelle opere, testimonianze concrete di quanto lo Spirito di Dio può attuare nel mondo.
I
L'UOMO E IL PONTEFICE
Poiché sembra una proprietà dell'azione di Dio preparare con doni e mezzi adeguati gli uomini da Lui eletti ad importanti Uffici, non sarà fuor di luogo che rivolgiamo innanzi tutto uno sguardo alla persona di Benedetto XIV, prima ancora che alla sua attività di canonista e di legislatore, tenendo per certo che qualsiasi indagine sull'opera di un uomo non può prescindere dall'indole personale e dalle circostanze esterne, dalle quali il giudizio complessivo acquista maggior rilievo e più esatta valutazione. Nè si potrebbe approfondire la persona e l'opera stessa di Papa Lambertini, prescindendo dal suo tempo, il Settecento europeo, sul cui sfondo di gaia, ma sovente sterile operosità, si erge, con vivo contrasto, la figura di lui, come di uomo straordinario per ricchezza di natura, per pienezza di vita, per serietà di studi e fecondità di attuazioni. Purtroppo a lui, dotato di straordinaria sensibilità verso tutti i rami della coltura, modello egli stesso di dedizione alla ricerca del meglio, mecenate munifico, non arrise spesso la sorte d'incontrare sul suo cammino uomini quali egli avrebbe desiderato. Soltanto in parte restò avverato il suo sogno, che, da vescovo di Ancona, manifestò all'archeologo Giovanni Bottari, con queste parole : « Il dovere di un cardinale, il miglior servizio che egli possa offrire alla Santa Sede, è quello di portare a Roma uomini dotti ed onesti » (cfr. L. v. Pastor, Geschichte der Peipste, t. XVI, i, pag. 129). Prospero Lambertini del suo Settecento possedè il meglio nelle qualità naturali ed acquisite, mentre negli studi e negli uffici, superò nettamente la sua epoca, ed in qualche lato fu precursore delle seguenti.
Chiunque, al primo incontrarsi con lui, avanti o dopo l'ascesa al Sommo Pontificato, si accorgeva di aver dinanzi a sè un uomo dall'indole aperta e semplice, improntata alla più schietta naturalezza, spoglia di infingimenti e sotterfugi. I severi studi, cui si dedicò fin dalla prima giovinezza, non gli tolsero l'alto senso pratico della vita, che lo accompagnò in ogni circostanza, né le alte cariche di governo, con le immancabili ansie e avversità, valsero a modificare il suo animo naturalmente bonario, affabile e gioviale. Il voluminoso carteggio privato è lo specchio fedele della sua anima, incline alle benevole interpretazioni degli uomini e dei loro atti, ma non al di fuori della verità, che non sapeva occultare né a sé stesso né ad altri. Egli sapeva far fronte alle avversità col calmo dominio delle sue facoltà, e ricorrendo non di rado alle garbate facezie, talune delle quali sono ancora oggi ripetute con un senso di simpatia verso il loro Autore. Possedeva in alto grado ciò che suol chiamarsi la « sana ratio », un sano e ragionevole giudizio, che scaturiva da un forte senso di giustizia, di equità e di riguardo verso chicchessia e di fronte a chiunque. Questa nota caratteristica del suo animo si può ravvisare nell'esercizio del governo, ma anche e soprattutto quando nelle sue dissertazioni affronta questioni complesse e delicate, nelle quali è necessaria l'esatta distinzione dei diversi elementi e la non equivoca formulazione di giudizi. Perché sincero e leale, Benedetto XIV era aperto e libero nel manifestare il suo pensiero; ma, nello stesso tempo sempre ben disposto ad accogliere i prudenti consigli e le critiche fondate.
Fu già affermato (cfr. La Civiltà Cattolica, 7 settembre 1918, pag. 419) che nel 1727 il Lambertini, allora Promotore della Fede presso la S. Congregazione dei Riti, mosse una « fiera opposizione » alla concessione dell'Ufficio e della Messa propria in onore del Sacratissimo Cuore di Nostro Signore Gesù Cristo, e che anche gli sforzi fatti poi per « piegare l'inflessibile Promotore » andarono falliti. — È noto però che l'ufficio di Promotore della Fede è appunto quello di proporre a tempo opportuno tutte le difficoltà; onde il Lambertini dichiarò intorno alle sue Animadversiones nella causa anzidetta « eas omnes exaratas a se fuisse, ut munus sibi commissum adimpleret ». Simili difficoltà erano state già presentate trent'anni prima dal suo predecessore in quell'ufficio, Mons. Bottini, nel suo Voto, del quale il Lambertini (pur senza menzionarlo) fece suoi alcuni argomenti. Del resto, come egli stesso riferisce (Benedicti XIV Pont. Opt. Max. Opera Omnia in tomos XVII distributa, Prati in typographia Aldina 1839-1856, t. IV, pag. 705), quando la S. Congregazione dei Riti, nel 1729, rispose infine Negative, egli aveva già lasciato l'ufficio di Promotore. Apparisce dunque che la condotta del Lambertini non fu, nemmeno in quella vertenza, difforme dalle regole della prudenza e della giustizia. Né egli si mostrò, da Papa, contrario al culto del S. Cuore di Gesù rettamente inteso : favori anzi con privilegi la Confraternita di Roma e tante altre Confraternite del S. Cuore.
La sua tendenza fondamentale a conciliare i contrasti lo manteneva alieno dall'assumere posizioni estreme : « ab extremis, quae semper vitiosa sunt, longe se abstineant », ammoniva a proposito della questione della proibizione degli interessi dei mutui (« Vix pervenit » 1° Nov. 1745 § 8, in Benedicti XIV Opera omnia, t. XV, pag. 593); ed egualmente in quella dei teatri, intorno alla quale scriveva, il 6 ottobre 1753, al suo amico Marchese Scipione Maffei in Verona: « ... non abbiamo pensato, né mai penseremo a far gettare tutte le commedie e tragedie, ma ci siamo ingegnati di fare che le commedie e tragedie che si rappresentano siano in tutto oneste e probe » (Benedicti XIV Acta, sive nondum sive sparsim edita, nunc primum collecta cura Raphaelis de Martinis, vol. II, Neapoli 1895, pag. 159).
Questa larghezza ed equilibrio di vedute lo accompagnarono altresì sul Soglio pontificio. Nelle dispute teologiche Benedetto XIV distingueva chiaramente tra la dottrina della fede e le opinioni lasciate alla libertà delle diverse scuole, perché, egli scriveva, « nelle cose non definite dalla Chiesa ognuno può seguitare quel parere che il suo dettame gli suggerisce » (Lettera al Card. de Tencin, 7 settembre 1742 — Archivio Segreto Vaticano, Miscell. arm. XV, n. 154, f. 25). Parimente nella censura dei libri non voleva una condanna, senza che prima fossero accuratamente esaminati. Così egli si esprimeva: « Noi abbiamo sempre risposto, e sempre risponderemo, che non abbiamo, né mai avremo altro impegno, che per la verità e per la giustizia, e che, se trattandosi di qualsivoglia opera, non saressimo mai per permettere, che fosse condannata senza il previo esame, molto più siamo obbligati a fare lo stesso in un'Opera composta in Roma approvata da persone viventi, di molto merito e sapere ... Si dica dunque una volta, se ciò si vuole, o non si vuole, e si dica nelle debite forme, ed allora saremo colpevoli, se non prendiamo le misure per far rendere giustizia, sperando però fermamente di non essere colpevoli, nè avanti Dio, nè avanti gli uomini amatori della giustizia, se neghiamo, o trascuriamo, per meglio dire, di condannare un'opera a pura suggestione d'altri, e senza il previo esame, e dell'opera, e delle difese, che ha fatto l'Autore per sostenerla » (ibidem, n. 155, f. 630).
LA FIGURA E LE OPERE
DI BENEDETTO XIV
Larghezza e generosità furono tratti caratteristici della sua indole e condotta, mentre riserbava per sé un'immutata austerità di vita. Sapeva compatire i falli degli inferiori e correggere con amorevolezza paterna; ma la sua rettitudine non tollerava i cacciatori di uffici, gli « arrivisti », sui quali riversava il suo disprezzo col pieno diritto di chi non aveva preteso mai nulla per sé, che non si contaminava della più lieve macchia di nepotismo, e a cui nel lungo Conclave, donde uscì Papa, nessuno poté rimproverare di aver fatto il minimo passo o gesto, per richiamare su di sé l'attenzione degli elettori. Nell'esercizio della generosità si dimostrò grandioso durante la pubblica calamità della guerra, che devastò il territorio pontificio, procurandogli indicibili amarezze. All'austerità della vita lo portava l'ardente amore allo studio, le cui fatiche sosteneva con una resistenza eccezionale e con una diligenza che suscitava ammirazione. Alle cure del governo si applicava con la medesima dedizione e con la rara coscienziosità che aveva nel far tesoro di ogni briciolo di tempo. Già l'autore delle « Vitae et Res gestae Romanorum Pontificum, Romae 1751 », contemporaneo di Benedetto XIV (Marius Guarnacci) lo qualificava (t. II, col. 492) quale « rigidus exactor temporis »; definizione questa la cui forza viene così resa da una scrittrice vivente: « il suo orario era massacrante » (E. Morelli, Tre Profili, Roma 1955, pag. 14 — Quaderni del Risorgimento, n. 9).
Il suo senso di moderazione e di pietà, tuttavia, gli faceva trovare il tempo di recarsi verso sera in qualche chiesa all'adorazione del Santissimo e di « camminare a piedi per la città, per lo più nel Trastevere verso Ripa, con indicibile consolazione della povera gente » (cfr. Lettera di Benedetto XIV al Cardinale de Tencin, 25 ottobre 1743 — Archivio Segreto Vaticano, Miscellanea Arm. XV n. 154, f. 151). È tale l'equilibrio, che riluce nella persona e nella condotta di Benedetto XIV, che riuscirebbe difficile il voler distinguere le doti naturali dalle virtù acquisite sul fondamento di una vita ascetica, tanto profonda quanto nascosta e spontanea. Si può però affermare che il suo senso religioso animava positivamente lo studio ed il lavoro, fino a tramutare queste attività in vera e propria ascesi. Confidava, infatti, in una lettera all'amico Galli, parlando della sua carriera di studio: « mi sentivo nel mio interno chiamato dalla religione stessa a lavorare per magnificarla. ... La religione, dandomi il colore ed il pennello, mi ha messo in grado di dipingere in modo duraturo ». E, passando all'opera licenziata alle stampe, aggiungeva : « mi è cara, non perché è derivata dal mio spirito, ma perché, come io spero, sarà quella che intercederà presso Iddio, perchè mi siano perdonate le mie mancanze e i miei peccati » (Pastor, ibid., pag. 19-20).
Allorché, dal mattino del 17 agosto 1740, il nome di Prospero Lambertini cominciò a percorrere le vie di Roma e poi di Europa, verso le cancellerie dei Governi, unito a quello di Benedetto XIV, gli faceva quasi da battistrada la fama giustamente meritata di uomo dotto e probo, o, come lo aveva descritto a Vienna l'ambasciatore Santa Croce, « particolarmente capace e famoso per le sue cognizioni di diritto canonico e di storia, per le sue attitudini diplomatiche e per la sua aperta giustizia : è il migliore ecclesiastico che possa desiderarsi ». La principale rinomanza di Benedetto XIV tra i contemporanei poggiava sulla sua vastissima erudizione. La sua fama come dotto era tanto largamente diffusa ed accettata, che lo stesso Montesquieu, scrivendo ad un suo amico aggregato dal Pontefice all'Accademia di Storia Romana, poteva dire: « Il est heureux pour vous d'avoir paru avec hon neur devant le Pape; c'est le Pape des Savants » (Œuvres de Monsieur de Montesquieu, 2e édit., 1792, t. VII, pag. 341-342).
Benedetto XIV era per verità uno dei grandi dotti del suo secolo, scrittore straordinariamente erudito e fecondo, sincero amico della scienza, dell'arte, dei libri. Di questi possedeva una scelta e ricca biblioteca privata, i cui volumi più rari cedette alla Vaticana, verso la quale, unitamente agli archivi romani, aveva dimostrato le più vive premure, arricchendola di pregevoli fondi, come la biblioteca Ottoboni con le sue collezioni di codici greci, latini ed ebraici. Nella previsione che non gli rimanesse ancora se non un breve tempo di vita, inviò a Bologna la sua biblioteca privata, alla quale aggiunse quella fondata per l'Istituto delle Scienze. Bologna « la dotta » non poteva attendersi altro dono più degno dal suo figlio più dotto. Era parimente da aspettarsi da un uomo dedito per tutta la vita allo studio, che da Pontefice si facesse promotore delle scienze, particolarmente di quelle da lui predilette, quali la storia ecclesiastica e la liturgia, di cui fondò speciali cattedre, sia all'Università di Coimbra (Pastor, ibid. pag. 138, nota 4), sia al Collegio Romano ed eresse le quattro Accademie: dei Concili, della Storia Ecclesiastica Pontificia, di Liturgia, e della Storia e Antichità Romane (Notizia delle Accademie erette in Roma per ordine della Santità di N. S. Papa Benedetto XIV, Roma 1740). Anche la matematica, la fisica e l'anatomia ebbero da Papa Lambertini avvio o rinnovamento. Significativo fu il fatto di non aver egli negato il suo consenso all'Università di Bologna, che intendeva valersi dell'insegnamento di due donne erudite: la celebre matematica Maria Gaetana Agnesi, che però non accettò l'invito, e Laura Caterina Bassi, rinomata come studiosa di filosofia. Desiderava che nelle menzionate quattro Accademie, alle quali deve aggiungersi quella di fisica, da lui riformata col nome di « Nuovi Lincei », si raccogliessero i nomi più insigni della coltura. Egli stesso prendeva parte talvolta alle loro sessioni, provando particolare diletto nel circondarsi di dotti. Con molti di loro, che Roma poteva allora vantare, e con altri residenti fuori dell'Urbe, intrattenne rapporti personali di amicizia. Tra questi merita particolare menzione il « padre della storiografia italiana » Ludovico Antonio Muratori, verso cui Benedetto XIV nutrì profonda stima.
Quanto all'attività artistica, non senza significato il nome di Benedetto XIV campeggia sul fregio che sormonta le colonne corinzie della Fontana di Trevi (« Perfecit Benedictus XIV Pon. Max. »), non solo perché quella famosissima architettura fu portata a compimento sotto il suo pontificato; ma anche perché essa esprime con eloquenza quanto egli si sia distinto nella tradizione artistica del Papato. Basterà, in questo argomento, ricordare soltanto due dei suoi grandi meriti : l'aver salvato il Colosseo dall'abbandono e dalla devastazione, e l'aver restaurato ed arricchito il Museo Capitolino. Nella Roma, quale si rivela nelle incisioni del Vasi e ancor più del Piranesi, documenti espressivi della vita della società di quel tempo, la figura di Benedetto XIV apparisce e come uomo e come Principe e mecenate. Un noto storico poté affermare che nessun Papa come lui rappresentava l'incarnazione dello spirito italiano nel migliore e più amabile lato (Franz Xaver Kraus, Briefe Benedikts XIV an den Canonicus Francesco Peggi in Bologna, 1729-1758, 2 ed., Freiburg i. 13. 1885, pag. XIII).
Il senso pratico e l'avvedutezza nelle risoluzioni erano certamente compresi nel ricco corredo morale, con cui esercitò il supremo potere nella Chiesa. Benedetto XIV si mantenne nella linea del Tridentino, operoso ed instancabile nell'approfondire le riforme auspicate da quel Concilio, come, del resto, aveva fatto nelle sedi episcopali di Ancona e di Bologna. In Roma si occupò in particolare della riforma dei tribunali civili e criminali, emanando numerose ordinanze (Benedicti XIV Acta, vol. I, Neapoli 1894, pag. 161-172, 188-199, 202-208). Nel campo strettamente ecclesiastico le sue premure erano rivolte in grado eminente alla buona formazione del clero, alla scelta di ottimi Vescovi alla fiduciosa collaborazione dei Vescovi con la Santa Sede. Nel regolamento dell'amministrazione finanziaria, agì con energia, secondo sani, giusti ed equi principi.
I rapporti coi Principi cristiani di quel secolo di assolutismo non erano facili; ma nessuno potrà negare a Benedetto XIV che egli fosse assai avveduto nel giudicare sia gli avvenimenti generali sia le condizioni speciali, dinanzi alle quali lo poneva il suo Officio; tuttavia bisogna pur ammettere che, in generale, nelle questioni politico-ecclesiastiche, il Papa Lambertini si lasciava spesso guidare dalla sua naturale inclinazione all'accomodamento, come già si era notato, sotto il pontificato di Benedetto XIII, nella questione della Monarchia Sicula. Mentre, nella difficile controversia, sorta appena all'inizio del suo Pontificato, per l'elezione imperiale di Carlo VII e di Francesco I, consorte dell'Imperatrice Maria Teresa, il suo comportamento si dimostrò un esempio di saggezza, non può dirsi senz'altro lo stesso, almeno con unanime consenso, per le conclusioni dei Concordati con le Corti di Sardegna-Piemonte, di Napoli e di Spagna, e per il grande riguardo da lui avuto verso le esigenze del Re Federico II di Prussia. Si può porre cioè il quesito, se egli sia stato troppo conciliante ed arrendevole di fronte alle veementi ed eccessive pretese delle Corti secolari. La risposta non è concorde tra gli storici, che, come già i contemporanei, si dividono in difensori e critici. La cedevolezza verso il Re di Prussia può essere spiegata dalla superiore mira del Papa di non aggravare maggiormente la condizione dei cattolici in quello Stato. Le concessioni ammesse nei suaccennati Concordati a favore delle Potenze secolari appaiono veramente straordinarie e al di là delle tradizioni. Il Papa stesso era conscio del rischio che esse rappresentavano per la Chiesa; tuttavia stimava che solo mediante abili accomodamenti e ben ponderate condiscendenze, avrebbe potuto condurre la nave della Chiesa tra gl'insidiosi scogli dell'assolutismo di Stato e del razionalismo, infiltratisi nelle Corti e negli alti ceti delle nazioni cristiane.
La condotta di Benedetto XIV può essere meglio compresa, se si considera alla luce dei susseguenti Pontificati fino al tramondo del secolo XVIII. Il successore di lui Clemente XIII, benché, superando la sua naturale mitezza, avesse resistito con magnanimità e fermezza eroica alle pressioni delle Corti, non riuscì a far prevalere il rispetto verso le libertà ecclesiastiche. Era tutta un'epoca ed una società che soggiaceva all'opprimente atmosfera dell'assolutismo statale e degli equivoci generati dal movimento razionalistico; il concetto della indipendenza della Chiesa non trovava posto, sullo scadere del secolo XVIII, neppure presso le Corti degli stessi Principi cattolici.
II
CANONISTA E LEGISLATORE
Ma la vostra eletta adunanza, Venerabili Fratelli e diletti Figli, si compiace giustamente di ammirare nel Papa Lambertini, in primo luogo, il canonista e il legislatore : ambedue tratti essenziali della sua figura e solido fondamento della sua celebrità. I suoi meriti, quale canonista per eccellenza, Maestro e creatore del diritto canonico, riconosciutigli unanimemente in vita, non che impallidire col volgere del tempo, sono stati sempre confermati, sia dal generale avanzamento degli studi storico-giuridici, ai quali il suo ingegno aprì nuove vie, sia dalle concrete attuazioni che ne sono seguite, e di cui egli fu precursore. Intendiamo qui riferirCi principalmente all'« arduum sane munus » del Codex Iuris Canonici, divenuto felice realtà dei nostri tempi, dopo secoli di attesa, ma che nella vasta opera di Benedetto XIV affonda molte delle sue radici. Con una coincidenza di nomi non priva di significato il Codex, gloria del Pontificato di S. Pio X, fu promulgato da un Pontefice, che aveva occupato la medesima Sede episcopale del Lambertini in Bologna e assunto di lui il medesimo nome, Benedetto XV.
La fama di Prospero Lambertini rimane indissolubilmente legata alle sue opere, numerose ed altamente pregevoli, cardini durevoli delle scienze giuridico-ecclesiastiche, pietre miliari nel loro avanzamento. L'impressione complessiva, che ognuno raccoglie dal primo incontro con gli scritti di Benedetto XIV, non è sostanzialmente diversa dal senso di alta ammirazione verso l'Autore, manifestato già dal P. Emanuel de Azevedo con espressioni che potrebbero, a prima vista, sembrare luoghi comuni di una penna del Settecento, troppo scorrevole nel ricamare fiori di adulazione, oppure indicare la comprensibile benevolenza di chi, come l'Azevedo, ne aveva curato la pubblicazione, dopo averne tradotto in latino alcune parti. Questi, infatti, nella Prefazione « Dedicatio praefixa Romanae Omnium Operum editioni » presenta la prima raccolta dei 12 volumi di Benedetto XIV così: « Mirum est unum hominem aut scientia comprehendere, aut memoria retinere, aut scripto complecti tantas res, tam varias, tantis difficultatibus atque obscuritate et dissentione Auctorum impeditas potuisse: unum tot vetusta et posteriorum aetatum monumenta inspicere, scriptores legere, libros diversi adeo argumenti, exterarum linguarum, editis remotissimis regionibus, nosse, solerter examinare ; quae scitu utilia proponebantur amplecti, respuere ac refutare contraria. Atque eum quidem hominem, qui aliarum omnino rerum curis fuerit semper implicitus; gravissimis periculosissimisque muneribus occupatus... » (Opera omnia, t. I, pag. X).
Canonisti della più chiara fama, anche non cattolici, non dubitano di additare in Benedetto XIV il più grande tra quanti si siano distinti nella scienza del diritto canonico. Uno di essi loda « den stofflichen Reichtum und die geschichtliche Begriindung » delle Costituzioni di Benedetto XIV e aggiunge : « wenn auch immerhin dieser griisste aller Canonisten in seiner gesetzgeberischen ntigkeit aus dem von der rbmischen Kirche seit Jahrhunderten gesammelten Schatz von Erfahrung und Weisheit geschipft, so verdankt doch eine Fiille von herrlichen Bemerkungen und weisen Entscheidungen, die in seinem Bullarium enthalten sind, unmittelbar ihm ihren Ursprung » (Hugo Laemmer, Zur Codification des canonischen Rechts, Freiburg i. B. 1889, pag. 27 e 36). I citati pregi del Bullarium, segnatamente il felice connubio tra la rigorosa documentazione storica della materia e la saggezza delle decisioni — quest'ultima, frutto della lunga esperienza di una vita intieramente applicata agli importanti uffici di Curia e all'universale governo della Chiesa — si riscontrano anche nelle altre sue opere canoniche, quasi impronte della sua persona ed in tal grado da potersi dire che, in Benedetto XIV lo scienziato e il legislatore procedono sempre di pari passo, come tenendosi per mano (cfr. anche Joh. Fr. Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des Canonischen Rechts, t. III, i, Stuttgart 1880, pag. 505). Altri pregi comuni alle opere canoniche del Papa Lambertini, tutt'altro che frequenti nella letteratura giuridica del tempo, sono, per concorde giudizio degli esperti, la esatta cura con cui l'Autore tratta le materie più disparate ed ardue, la perfetta conformità con le scienze teologica e storica, la precisione nelle soluzioni e risposte alle questioni che si proponevano, ed infine, lo stile piano e facilmente intelligibile.
Ma il merito più cospicuo di Lambertini canonista e legislatore sta nell'avere appianato la strada alla unificazione della prassi giuridica ecclesiastica, che finalmente fu compiuta nel Codice di Diritto Canonico. Il movimento verso tale unificazione, di cui si avvertiva da secoli la necessità, ma che sembrava impresa pressoché impossibile, ricevè il primo impulso dalle due grandi opere scientifiche di Benedetto XIV : il « Thesaurus Resolutionum Sacrae Congregationis Concilii » e il « De Synodo Dioecesana ». La prima, nata, si può dire, occasionalmente dall'esercizio del Lambertini nell'ufficio di Segretario della S. C. del Concilio, si compone di 4 volumi elaborati da lui stesso con estrema accuratezza. Questa raccolta sistematica di sentenze, che dopo di lui fu continuata fino alle soglie del presente secolo, portando a conoscenza dei tribunali ecclesiastici delle varie regioni del mondo la prassi e la saggezza della giurisprudenza romana, convogliò quasi insensibilmente le disparate correnti e le differenti scuole nell'alveo della unità romana. L'altra opera, invece, « De Synodo Dioecesana » fu concepita con lo scopo di promuovere l'unificazione nel trattamento del diritto e dell'amministrazione. Dalla paziente e laboriosa fatica di molti anni, l'opera è risultata un autentico capolavoro nel suo genere, « ein Meisterwerk », come la definisce lo stesso Schulte (o. c. pag. 505), dove tutto il materiale delle fonti è messo a profitto. Il « De Synodo » è un'opera magistrale per l'ardimento delle materie che possono essere oggetto di un Sinodo diocesano, per la compiutezza della loro trattazione e presentazione, tali che difficilmente vi Si possono indicare lacune, per l'oggettività rigorosa e la trasparente chiarezza dell'esposizione.
L'arduo campo giuridico non esaurì però il forte ingegno di Benedetto XIV, che, come è noto, ebbe a coltivare con solerte impegno e felice risultato anche gli studi liturgici. Dei suoi scritti liturgici è noto l'elogio dell'illustre Dom Guéranger : « le grand Pontife Benolt XIV, dont le nom seul rappelle la plus vaste science liturgique, dont jamais un homme ait été orné » (P. Guéranger, Institutions Liturgiques, II, Paris 1880, pag. 494) È vero che una moderna critica ha avanzato qualche riserva su tale elogio, notando che l'opera del Lambertini in questo campo, benchè eccellente dal punto di vista giuridico e pratico, trascura gli aspetti storici e scientifici della liturgia (così, per esempio, il Cabrol nel Dictionnaire d'Archéologie Chrétienne et de Liturgie, t. II, i p., col. 771-775). Quale che sia il grado di fondatezza di tale riserva, occorre però non dimenticare, a giustificazione del Lambertini, che la ricerca scientifica delle istituzioni liturgiche della Chiesa antica segnò le sue grandi conquiste negli ultimi due secoli, dunque dopo il Pontificato di Benedetto XIV.
III
IL MAESTRO » NEI PROCESSI DI BEATIFICAZIONE
E DI CANONIZZAZIONE
Se non che, Venerabili Fratelli e diletti Figli, tra le opere scientifiche di Benedetto XIV, primeggia, per originalità e compiutezza, quella celeberrima dal titolo « De Servorum Dei Beatificatione et Beatorum Canonizatione », designata dalla critica unanime come fondamentale e classica, monumento durevole e ancora vivo del dotto Pontefice. A lui non potremmo rendere omaggio più degno, nella odierna celebrazione centenaria, che fare di questa opera, ancora insuperata, una particolare menzione.
L'opera « principe » di Benedetto XIV, licenziata alle stampe due anni avanti la sua elezione a Sommo Pontefice, si presenta, nella sua imponente mole, come compiuta sintesi di tutta l'erudizione che i molti secoli avevano accumulato intorno a tale argo mento, e della cui ampiezza e profondità Prospero Lambertini si era impossessato con la consueta diligenza durante circa trent'anni di studio e di prassi, nell'ufficio di Avvocato Concistorale ed in quello, durante venti anni, di Promotore della Fede. In' questa compiutezza di documentazione consiste il primo pregio dell'opera : alla mente indagatrice dell'Autore non sfugge nulla di notevole di quanto la storia ha conservato intorno alle materie agiografiche ed ai processi di canonizzazione, dai secoli più remoti fino al ricchissimo materiale, che precisamente dalla metà del secolo xvii si veniva pubblicando, con progrediti metodi di critica, dai Bollandisti e nelle raccolte delle fonti dei Maurini. Tutto il Lambertini valutò, ed ogni pietra, ricavata dalla storia della redenzione e della Chiesa, specialmente, com'è naturale, dall'agiografia, ed anche dalla teologia, dal diritto canonico e dalle scienze profane, collocò al proprio posto in una ben ordinata costruzione (sebbene ad alcuni appaia oggi, secondo il gusto moderno, alquanto farraginosa e formalistica), non trascurando di adornare l'intiero edificio con copiose altre cognizioni storiche e teologiche attinenti al soggetto. Quest'opera di Benedetto XIV, in quanto sintesi del pensiero e della prassi della Chiesa Cattolica intorno al culto dei Santi, si potrebbe in qualche modo paragonare alla Somma di S. Tommaso d'Aquino : come questa presenta il compendio di ciò che la sacra dottrina fu dal principio ed in ogni tempo, cosi l'opera del Lambertini offre una compiuta visione della tradizione ecclesiastica in materia di culto e di canonizzazione dei santi, dei criteri e delle modalità accolte come norme, fin da principio e nelle epoche successive, nel considerare e nel proclamare alcuno come santo. Soprattutto nell'indagine e nell'accertamento di quei criteri ha gran merito l'opera di Benedetto XIV, in particolar modo la dissertazione « De virtute heroica » (lib. III, cap. 2i e segg. — Opera Omnia, t. III, pag. 207 e segg.), nella quale l'Autore, sullo sfondo della esperienza e della prassi della Chiesa, disegna la figura del Santo, mostra in che cosa la santità consista, descrive l'ideale cattolico della santità, stabilendo in tal modo una dottrina, benchè non nuova nella sostanza, tuttavia organica negli elementi, esatta nei termini ed a tutte le menti accessibile.
Un altro merito, quasi congiunto col primo, consiste nell'aver derivato dalla tradizione ecclesiastica con esattezza e fedeltà i criteri, secondo i quali i fatti e le opere dei Santi, nonché la testimonianza cruenta della loro fede, sono da giudicare. Anche in questo campo, talora spinoso, che si presta per sua natura a diversità di vedute e a contrasti, il Lambertini si dimostra aperto, oggettivo e leale. Per citare alcuni esempi, indichiamo, nel lib. 3, cap. 20, la questione del martirio fuori della vera Chiesa di Cristo (Opera Omnia, t. III, pag. 195-207). Discussi e risoluti i casi dei falsi martirii, egli si propone quello di chi, in buona fede fuori della Chiesa, immola la vita per una verità insegnata anche dalla Chiesa, come, per esempio, l'esistenza di Dio o la divinità di Cristo. Benedetto XIV accoglie, illustrandone i motivi, la comune sentenza dei teologi nella risposta: « eum martyrem esse posse coram Deo, sed non coram Ecclesia » (pag. 198). Con pari serenità e fondatezza di argomenti egli esamina le sottili questioni dei limiti fra virtù eroica e non eroica, del peccato nella vita dei Santi, della « nota iactantiae et vanae gloriae », e di « quaedam extraordinariae actiones, quae a speciali Dei impulsu factae asseruntur », tutte contenute nel lib. 3, cap. 39-41 (Opera Omnia, t. III. pagg. 467-503).
Degna di nota è la posizione in cui deve porsi chi giudica i fatti e le opere dei Santi per accertare la eroicità della loro virtù: Benedetto XIV non delinea un quadro generale della virtus heroica, per esempio della fede o della umiltà del Santo, secondo uno schema ideale, sul quale si debba far combaciare, per dir così, il Santo reale; ciò a cui volge la sua attenzione nell'esame critico, sono immediatamente le opere dei Santi, dalle quali egli poi rivela la virtus heroica. Nel determinare il concetto di questa e nello stabilire norme per una sua giusta valutazione, Benedetto XIV manifesta quella larghezza e moderazione del suo spirito, già precedentemente notate, che, del resto, rispecchiano la prassi, a lui ben nota, della procedura romana. Egli richiede bensì da una parte, in ogni Santo, una vita di virtù corrispondente al particolare suo stato, e sempre di nuovo, esige una virtù superiore all'ordinaria del comune cristiano. Chi volesse esprimersi nel senso di un addolcimento della santità o dello sforzo verso di essa, non potrebbe certamente richiamarsi a lui. Ma, d'altra parte, egli respinge egualmente quello strano estremismo, che nei secoli XVII e XVIII, anche sotto l'influsso del giansenismo, era da alcuni difeso.
Coloro, come molti tra voi, che si occupano dei processi di Beatificazione e Canonizzazione, considerano a giusto titolo Benedetto XIV il « Maestro » per eccellenza dei loro ordinamenti. Tuttavia sappiamo che nelle vostre file si discute se ciò debba intendersi nel senso che gli ordinamenti di lui rappresentino il punto di arrivo nella perfezione dello sviluppo di detti processi, oltre il quale non è possibile avanzare; oppure se la sua opera rappresenti soltanto un elevato stadio verso ulteriore perfezionamento. Stabilito che la visione della santità cattolica, quale è offerta dal Papa Lambertini, ha ed avrà valore permanente, è lecito, ed anche utile, discutere sulla perfettibilità della prassi processuale da lui stabilita, poiché stimiamo che non corrisponderebbe né al pensiero, né alle intenzioni dello stesso Benedetto XIV, se si volesse lasciare il processo nella rigida forma, che aveva al suo tempo e quale si presenta nell'opera sua. La legge dello sviluppo storico delle umane istituzioni potrebbe imporre, anche in questa materia, alcuni rinnovamenti dell'ordinamento processuale, affine di renderlo più atto ad assolvere i suoi uffici, divenuti sempre più complessi e numerosi nei due secoli scorsi.
In tal caso, sarebbe innanzi tutto da esaminare se siano da adottarsi quei mezzi puramente tecnici, di cui oggi si dispone, e che semplificherebbero notevolmente i processi. Per citare un solo esempio, non si ammettono al presente atti dattilografati, ma soltanto copie manoscritte, mentre i primi importerebbero un notevole vantaggio di tempo, di esattezza, di comodità di lettura, di facilità di copie. Tale ricorso a mezzi tecnici nuovi, anziché offendere la tradizione, la continua, poiché è già un fatto che il processo di Beatificazione e Canonizzazione non è del tutto rimasto immobile durante gli ultimi duecento anni; ma si è perfezionato nella misura in cui si sono sviluppate le scienze di cui si serve. Ciò è avvenuto sul terreno della critica storica e della sua forza probante. Alieni dal sottovalutare il senso critico di quel secolo dei Maurini e del primo periodo dei Bollandisti, che pur rappresentava un progresso rispetto al passato, tuttavia è certo che la critica storica soltanto nel XIX e nel presente secolo ha conseguito lo sviluppo e il perfezionamento, che le donano la dignità di disciplina scientifica ed il valore di testimonianza fedele. Perciò il Nostro immediato Predecessore Papa Pio XI, esimio cultore di tali discipline, non dubitò di costituire per le cosidette « cause storiche », presso la S. Congregazione dei Riti, una speciale « Sezione storica » (Acta Ap. Sedis, XXII, 1930, pag. 87-88), il cui ufficio è di esaminare l'autenticità e la credibilità del materiale storico del processo, ed altresì di ricercare essa stessa nuove fonti di documenti.
Un altro notevole rinnovamento attuato negli ultimi tempi concerne le discipline mediche, alle quali si deve far ricorso nei processi di Beatificazione e Canonizzazione, prima di emettere taluni giudizi. È chiaro che lo stato, in cui esse si trovavano duecento anni or sono, non è paragonabile col presente. Se ne può avere una idea, senza allontanarsi dal soggetto, dall'opera stessa di Benedetto XIV, nei capi 51, 52 ed ultimo del libro 3 (Opera Omnia, t. III, pag. 584-614), ove egli disserta intorno alle visiones, apparitiones, revelationes, od anche nel libro 4, cap. 26, n. 26 (Opera Omnia, t. IV, pag. 308 e segg.), ove tratta di vari fenomeni, come le allucinazioni. Mentre l'ascetica e la mistica erano allora in grado di offrire una grande ricchezza di esperienze al riguardo, le cognizioni di medicina, al contrario, appaiono, oggi, rudimentali ed insufficienti. I processi di Beatificazione e Canonizzazione non potevano trascurare l'enorme sviluppo che le scienze mediche e psicologiche hanno conseguito dai tempi di Benedetto XIV ad oggi.
Ciò vale per il giudizio da formulare sui precedenti psicofisici e psicologici nella vita del Servo di Dio stesso; come sulla verità dei miracoli che si attribuiscono alla sua intercessione dopo morte. Pertanto, per ciò che concerne il secondo punto, Noi stessi abbiamo istituito presso la S. Congregazione dei Riti una commissione medica, incaricata di esaminare, nei casi di guarigioni affermate miracolose, se si tratti di vera guarigione da un determinato morbo, e se tale guarigione sia inspiegabile a norma delle leggi naturali.
Da alcuni si è manifestato anche il desiderio di un qualche alleggerimento nelle esigenze procedurali, per esempio, quanto all'Ufficio del Revisa e alla ripetizione delle discussioni sullo stesso argomento. D'altra parte, alla legittima, anzi lodevole tendenza verso il perfezionamento dei processi, che nulla toglie ai meriti di Benedetto XIV, né alla sua fama di « Maestro », si offre ancora una importante questione da risolvere, di ordine giuridico, molto vicina all'essenza della forma processuale stabilita da Benedetto XIV. Vi è noto che il processo, nella forma in cui egli lo ha lasciato, si fonda essenzialmente sulle deposizioni giurate dei testimoni. L'esito di un processo dipende, pertanto, quasi intieramente dalla persona dei testimoni, di cui si siano accertate le necessarie attitudini a testimoniare secondo verità. Si richiede certamente che essi siano omni exceptione maiores, homines bonae vitae et famae, tales, quod eorum dictis et attestationibus, in iudicio et extra, plenaria ab omnibus venit fides adhibenda (lib. 2, cap. 50, n. 4 — Opera Omnia, t. II, pag. 433 — cfr. anche Codex pro Postulatoribus, ed. 4, Roma 1929, pag. 128-129). Accertate nei testimoni tali attitudini, si stimò che la loro deposizione giurata desse il massimo di garanzia al processo. In teoria non si può richiedere di più alla umana testimonianza; ma in concreto, con quali mezzi si può stabilire l'attitudine soggettiva del teste a riscuotere la « plenaria fides? ». È sempre sicuro, almeno nel grado che si riconosceva, che le deposizioni giurate di quei testimoni diano certezza oggettiva alla verità? La indagine psicologica, oggi più sviluppata che nel passato, e l'esperienza giudiziaria di cui si è in possesso, manifestano dubbi e consigliano cautela. Sono forse le risposte ai fissati interrogativi e agli articoli, sufficienti per formarsi una piena ed esatta idea della persona di cui si tratta? Non sarebbe forse opportuno, come controprova o complemento, un rapporto riassuntivo di competenti testimoni o di periti, specialmente se il processo ha per oggetto personaggi che ebbero una parte notevole nella vita pubblica? Noi intendiamo per ora soltanto di proporre tali questioni all'esame dei competenti, con la fiducia che esse siano studiate con la medesima apertura, oggettività ed equilibrio, propri del grande spirito di Benedetto XIV.
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Venerabili Fratelli e diletti Figli! Nel porre termine a questa Nostra pur inadeguata commemorazione centenaria del più grande Papa del secolo xviii, Benedetto XIV, Ci sovviene alla mente la domanda : in che cosa e in qual grado la grandezza di lui come Pontefice, Legislatore e Maestro, esercitò un influsso sulla vita della Chiesa e dei fedeli dei tempi successivi? Si può accennare a qualche risposta, che peraltro non vuole essere qui un giudizio generale sui due ultimi secoli.
Come Pontefice, Benedetto XIV, proseguendo nel cammino segnato dai suoi Predecessori, riaffermò e rinsaldò, mediante i Concordati e nonostante le larghe concessioni, la sostanziale indipendenza della Santa Sede dai Poteri civili, e la conservò immune dagli errori e dai falsi indirizzi seguiti nella seconda metà del Settecento, separando in tal modo la sua responsabilità da quanto di deplorevole accadde negli sconvolgimenti di fine secolo. Se il Pontificato Romano uscì da quella tempesta maggiormente rinvigorito e tornò a risplendere dinanzi agli occhi dei popoli di luce più tersa, si deve principalmente al fatto che sulla Cattedra di Pietro si erano susseguiti Pontefici, come Benedetto XIV, dai costumi irreprensibili, leali a tutta prova, e solleciti del bene spirituale dei popoli, al di sopra di ogni terreno interesse.
In pari tempo, secondo un chiaro disegno di Provvidenza, Benedetto XIV, come insigne Legislatore, preparò la Chiesa ad affrontare la grande crisi del secolo, procurando per tempo la compattezza nelle file del clero e del laicato mediante il chiaro riordinamento delle leggi. Che cosa, invece, sarebbe accaduto, se la Chiesa fosse stata colta dalla bufera rivoluzionaria, nella incertezza delle sue leggi e nel rilassamento della interna disciplina?
Ma più evidente è l'influsso di Benedetto XIV, come Maestro nel senso già esposto, e, almeno, indirettamente, come divulgatore della santità tra i membri del Corpo Mistico di Cristo. È difficile dire se il cattolicesimo del secolo XVIII stimasse verisimile il ritorno all'epoca dei martiri nel centro stesso dell'Europa. La realtà è che esso seppe dare, ed in gran numero, Martiri degni dei primordi della Chiesa, mentre, da allora si sono moltiplicati soprattutto i Santi confessori, degni degli onori dell'altare, dei quali il maggior numero è noto soltanto a Dio. Lo Spirito divino soffia dove vuole (cfr. Io. 3, 8); ma è certo che un secolo ed una società, ove il culto dei Santi fosse negletto e si fosse inaridito il senso dell'ammirazione per l'eroismo delle virtù, non sarebbero i campi più adatti per una splendida fioritura di Santi.
A tal proposito desideriamo di aggiungere una esortazione d'indole generale. Da alcuni decenni si nota un movimento, che vorrebbe allontanare il più possibile dai sacri templi le immagini dei Santi, ed anche restringere la loro venerazione. Le chiese, che vengono costruite ed arredate secondo questo indirizzo, appaiono in tal modo improntate ad un « freddo iconoclasmo », quasi mute e digiune. Come giudicare questa tendenza alla luce della tradizione cattolica? È vero che la Chiesa lascia a ciascuno la libertà di dare nella pietà personale un maggiore o minor campo alla venerazione dei Santi; tuttavia nessuno può negare, senza offendere la fede cattolica, che coloro, i quali sono stati elevati dalla Chiesa agli onori degli altari, siano degni di venerazione anche pubblica. Nella pratica spetta pertanto agli Ordinari dei luoghi di vigilare, affinché la venerazione dei Santi non sia contrastata o negletta, ma promossa nelle pubbliche cerimonie, e le loro immagini rimangano in onore nella forma e nella misura consone alle regole della fede. Vi è inoltre alla radice di quella tendenza qualche cosa di malsano, che si riflette con detrimento sulla vita e sulle tradizioni cristiane. Se essa prevalesse, verrebbe innanzi tutto ad inaridirsi notevolmente, specialmente nel popolo, la feconda vena di vantaggi spirituali, che scaturisce dal domma della Communio Sanctorum, di cui la venerazione dei Santi, il parlare con loro e l'invocarli è elemento essenziale. Chi si richiamasse in ciò ad una forma « più pura e spirituale », dovrebbe ricordare quali furono le usanze del cristianesimo nei primi secoli verso la memoria e le spoglie mortali dei Martiri, e come del culto verso di essi abbiano lasciato commoventi esempi alle future generazioni. La venerazione dei Santi è dunque la nobilissima eredità lasciataci dalla cristianità primitiva. Per il diritto, poi, di rappresentare in immagini Cristo e i Santi la Chiesa dovette sopportare, nei secoli ottavo e nono, una durissima lotta. Mentre pertanto il sano popolo cattolico di tutti i tempi le è rimasto per ciò ben grato, la coltura non può esserle meno riconoscente, se si pensa alle perdite che l'arte avrebbe sofferto dall'affermazione delle mire iconoclaste. La Chiesa, che ha sempre favorita e promossa l'arte, specialmente religiosa, non intende abdicare al titolo di nobiltà che le proviene da questa tradizione. Perciò si sente anche obbligata a difendere l'arte contro quelle tendenze, che, coscientemente o no, hanno condotto talora a snaturare e sfigurare il riflesso della dignità e della bellezza del Creatore nell'uomo. Per una siffatta arte non vi è posto nel santuario. L'arte cristiana, e soprattutto il suo più intimo cerchio, l'arte sacra, debbono essere sempre degne di Dio e degli uomini di Dio, che sono chiamate a glorificare; degli uomini, che debbono ravvicinare a Dio.
A voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, affinché il Signore irrori con sovrabbondanti grazie la vostra attività nell'importante ufficio di mostrare al mondo quanto sia fecondo di santità il Corpo Mistico di Cristo, impartiamo con effusione di cuore la Nostra Apostolica Benedizione.
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XX,
Ventesimo anno di Pontificato, 2 marzo - 9 ottobre 1958, pp. 453-472
Tipografia Poliglotta Vaticana
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